Tutto quello che avreste sempre desiderato sapere su

La Finta Schiava

di

Francisco Javier García Fajer detto “lo Spagnoletto”

(se solo aveste saputo della sua esistenza)  

Intervista al musicologo che l’ha riscoperta, al baritono che la canta e al regista che la mette in scena, tutti e tre Paolo V. Montanari, giovane modenese.

 

La finta schiava di García Fajer “lo Spagnoletto”... Di’ la verità! L’hai scritta tu!

Posso assicurare di no. Comunque se l’avessi fatto, ne sarei piuttosto fiero. È un’opera molto piacevole e con un raro senso del teatro. García Fajer aveva l’età che ho io ora (24 anni) quando l’ha scritta.

Fingiamo di crederti. Cominciamo dal principio. Dove l’hai trovata e, soprattutto, perché la cercavi?

 In realtà non la cercavo, l’ho solo trovata. Fino ad una decina di mesi fa, per me “lo Spagnoletto” era solo un pittore caravaggesco del Seicento.

E poi?

La mia insegnante di canto, Tiziana Tramonti, da tanti anni fa le sue vacanze a Campiglia Marittima, un ridente borgo della Maremma Toscana, in provincia di Livorno. Il comune le ha chiesto se poteva occuparsi di allestire qualche spettacolo nel loro piccolo teatro ottocentesco, il Teatro dei Concordi, in collaborazione con un altro storico villeggiante di Campiglia, Massimo Mattioli, scenografo e regista che insegna Scenografia all’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Lei si è rivolta a me e abbiamo deciso di mettere in scena una rappresentazione di qualche dimenticato intermezzo o farsa del Settecento, così che, già che c’ero, potessi laurearmi al DAMS di Bologna, facendo una bella edizione critica. Quindi mi sono recato nella Biblioteca Estense di Modena, la mia città, una delle più importanti biblioteche del mondo. Cercavo un’opera corta, che avesse pochi personaggi e un’orchestra ridotta che si adattasse alle possibilità della nostra scuola di musica (l’Istituto Musicale di Studi Superiori “Orazio Vecchi” di Modena). E magari che avesse solo una o due fonti musicali, così che potessi fregiare la mia edizione dell’evocativo epiteto di “critica” senza anni di costose ricerche.

E cosa hai trovato?

Ho spulciato diverse partiture. Una mi è subito parsa interessante. Si trattava di La finta schiava. I personaggi erano solo tre, un buffo, Aromato, e due soprani, Dorindo e Lucrina. La musica aveva una tipica grazia galante, per quanto potevo giudicare dalla particella col canto e il basso. Infatti un inconveniente non da poco era l’assenza di una partitura, anche se il set delle parti strumentali singole era completo. Quello che mi ha conquistato subito sono stati i recitativi accompagnati, oltre tutto accompagnati anche dai corni, un tratto quanto meno infrequente negli intermezzi comici che conoscevo. Mancava però un autore. Sul frontespizio della particella un curatore ottocentesco aveva scritto: La finta schiava, parole dell’Abate Francesco Silvani, musica di Diversi? Sotto, tra parentesi quadre, v’era scritto “[Allacci]”. Evidentemente intendeva riferirsi alla fonte da cui aveva tratto l’informazione: la Drammaturgia di Leone Allacci, un repertorio di opere teatrali pubblicato per la prima volta a Roma nel 1666 e aggiornato nel 1755 a Venezia. “La finta schiava di Diversi?” non mi sembrava una dicitura molto interessante ai fini pubblicitari. Non mi sono perso d’animo e ho consultato il catalogo dei libretti italiani del Sartori, che ha prontamente svelato il mistero. Esiste infatti un’opera seria chiamata La finta schiava su libretto dell’abate Silvani, un pasticcio con musiche di Gluck, Lampugnani, Vinci ed altri andato in scena a Venezia nel 1744, che però non ha nulla a che fare con l’opera in questione. In base a due libretti a stampa citati dal Sartori (uno risalente alla prima rappresentazione del 1754, al Teatro della Pace di Roma, e l’altro ad una rappresentazione bolognese dell’anno seguente), si poteva attribuire senza ombra di dubbio la musica di questo intermezzo al compositore aragonese Francisco Javier García Fajer, chiamato in Italia Francesco Saverio Garzia, detto “lo Spagnoletto”.

E chi era costui?

In realtà ho scoperto che si tratta di un autore importante, almeno per la storia della musica spagnola. Era nato nel 1730 vicino a Logroño, nella regione de La Rioja, famosa per i suoi vini, poi aveva appreso i primi rudimenti musicali a Saragozza e, ancora adolescente, era venuto in Italia per studiare probabilmente in uno dei Conservatori napoletani, probabilmente la Pietà. Poi, tra il 1752 e il 1756, a Roma aveva fatto un paio di oratori sacri, un’opera seria e tre intermezzi comici. Stando al musicografo ottocentesco Ademollo sarebbe stato maestro di canto della Gabrielli, poi divenuta una delle più acclamate cantanti del suo tempo, che comunque allora era sua coetanea. La sua fama era cresciuta velocemente, tanto che lo richiamarono a Saragozza a fare il maestro di cappella. Accettò e abbandonò per sempre la carriera operistica. Una certa perdita per la storia della musica, a mio parere. Infatti, se la sostanza musicale della sua opera non brilla certo per originalità, ravviso ne La finta schiava una spiccata sapienza drammatica. Comunque è diventato il più famoso e diffuso autore di musica sacra del suo tempo, tanto in Spagna come nelle colonie. La sua musica continuò ad essere copiata fino ad Ottocento inoltrato e si trovano dei suoi pezzi, oltre che nelle biblioteche di ogni chiesa spagnola, anche in Messico, in California, in Argentina, in Cile e perfino nelle Filippine. Ebbe poi numerosissimi allievi, tra i quali compositori romantici importantissimi, a sentire gli spagnoli, come Rodríguez de Ledesma o Cuéllar y Altarriba. Infine è morto di peste nel 1809, lo stesso anno di Haydn, che era peraltro nato solo un anno dopo di lui, nel 1731.

Quindi hai fatto una scoperta interessante.

A quanto pare sì. Anche perché questo intermezzo, a causa dell’errore del bibliotecario ottocentesco dell’Estense che ha sviato gli studiosi, si pensava perduto, come gli altri due che aveva scritto García. Ne erano noti solo due pezzi, un’aria e un duetto, conservati a Londra in una raccolta di arie da opere di autori vari andate in scena a Roma tra il 1753 e il 1755. La mia scoperta ha subito attirato l’attenzione della musicologia spagnola e sono stato invitato a parlare ad un congresso di tre giorni organizzato dall’Università de La Rioja sulla figura de “lo Spagnoletto”.  

Ti sei poi laureato?

Sì, nel frattempo mi sono laureato al DAMS di Bologna con questa edizione critica del libretto e della partitura, che ho ricostruito a partire dal set completo delle parti strumentali singole, confrontandole col materiale londinese. Ho avuto l’onore di avere come miei relatori i celebri musicologi Marco Beghelli e Lorenzo Bianconi, tra i pochi incontri piacevoli che ho fatto nell’ateneo bolognese.

E l’hai pubblicata quest’edizione critica?

Veramente sono in attesa. Ho due spasimanti, un editore spagnolo e uno italiano. Purtroppo non sembrano tanto impazienti.

Poi quest’opera l’hai messa in scena.

Abbiamo formato per l’occasione l’orchestra “Orazio Vecchi”, formata da allievi dell’omonimo istituto modenese, con l’indispensabile guida dell’insegnante di violino Paola Besutti. Il nostro maestro al cembalo è il carismatico Mario Sollazzo, pianista, cembalista, compositore e suonatore di percussioni varie, esperto in particolare di musica barocca napoletana (quale quella de La finta schiava, in definitiva, è).

E i cantanti?

Il buffo sono io. I due soprani sono Alice Molinari (Dorindo, l’amoroso), modenese, già allieva della signora Tramonti che si è appena laureata in canto (ora si dice così) con Leone Magiera, e Arianna Donadelli (Lucrina, la finta schiava del titolo), aostana, già allieva di Luciana Serra che ora studia con Raina Kabaivanska all’”Orazio Vecchi” di Modena.

È roba difficile?

 Be’, soprattutto la parte di Lucrina, sì. Gli “acuti” arrivano “solo” fino ad un re sovracuto, ma è soprattutto la tessitura (cioè il range di note su cui insiste mediamente il pezzo) ad essere generalmente molto acuta, anche considerando un diapason più basso di quello odierno. E pensare che era stata scritta per un castrato, Giuseppe Giustinelli.

Le donne non potevano comparire sui palcoscenici romani.

Infatti, no. I castrati che interpretavano le parti femminili nel repertorio comico erano piuttosto apprezzati. Specialmente per la loro bellezza, sembra, come “le joli Battistini” ricordato nel diario di Madame du Bocage, o Gasparo Savoj, che sedusse perfino Casanova. La parte di Lucrina dimostra comunque che, a parte avere delle gambe voluttuose, non si trattava certo di cantanti meno dotati dei colleghi dell’opera seria. Di fatto Giustinelli, che ha cominciato con intermezzi e opere comiche, si è poi dedicato anche all’opera seria.

E l’amoroso è un altro soprano?

Sì. D’altronde, soprattutto nell’opera seria, nel Settecento gli eroi giovani e belli sono castrati. Ad esempio, Giustinelli, castrato primo interprete di Lucrina, ha interpretato anche numerosi ruoli maschili. I tenori erano chiamati più che altro a interpretare vecchi padri, re ed imperatori. Comunque, il ruolo di Dorindo fu poi ricoperto da tenori, nelle repliche seguenti a noi note, quella di Bologna del 1755 e quella di Bonn del 1767.

La famosa rappresentazione col padre di Beethoven!

Esatto. Uno degli aneddoti più famosi su García Fajer è che Johann van Beethoven, tenore, violinista e alcolista, futuro padre dell’illustre figlio, ha cantato Dorindo ne La finta schiava.

Non un granché come aneddoto.

La musicologia si sta attivando per trovarne di migliori.

E perché voi non avete affidato la parte di Dorindo a un tenore?

Non ne vedrei il motivo. La parte è stata indubbiamente scritta per soprano. Le due fonti musicali che ci rimangono riportano entrambe la chiave di soprano. Il breve duettino tra Lucrina e Dorindo del primo atto, in cui cantano sempre a distanza di una terza o una sesta, sarebbe molto meno affascinante se le due voci si trovassero a distanza di una decima o una tredicesima. In più trovo molto interessante l’en travesti. Il teatro e l’opera in particolare sono sempre stati un luogo in cui le rigide categorie sui generi si allentano. Il personaggio inoltre è un ragazzo piuttosto debole e insicuro che, spronato dalla sua sposa Lucrina, una ragazza dotata di sovracuti ma decisamente immorale, si traveste da minaccioso capitano, onde rapinare il ricco zio Aromato, mercante di Livorno. Nella mia regia, Dorindo viene travestito come uno stereotipo di dominatore ridicolmente ultra-mascolino, ispirato al mondo fetish, tutto vestito di pelle nera, con i baffi, il berretto di pelle da “master” e pure il frustino, il che contrasta visibilmente con la tenera femminilità dell’interprete.

Perché sei pure il regista di questo spettacolo. Musicologo, cantante, regista... Non fai un po’ troppe cose?

E quelle sono le cose più semplici! Faccio anche l’ufficio stampa, la copisteria, il facchino, l’organizzatore, il tourist office, l’art director, il trovarobe... Ed è tutto complicato dal fatto che il nostro budget è praticamente pari a zero. Comunque, ne approfitto per debuttare come regista. Ufficialmente non l’ho mai fatto.

E, come regista, qual è la tua visione dell’opera?

Una volta tanto, quest’opera non parla di sesso. Cioè, se ne parla, ovviamente, ma comunque non è il tema principale. Qui si parla di soldi. Il nome stesso di Lucrina indica quale sia il suo interesse primario: riscattare la sua condizione di ragazza povera acquistando una sicurezza economica con qualsiasi mezzo. E anche lo zio Aromato è un nuovo ricco, volgare e parimenti senza scrupoli, pur essendo straordinariamente affezionato al nipote Dorindo. Ho pensato quindi ad una scenografia e a dei costumi ispirati al mondo degli anni ’80 del Novecento che, almeno nel cliché collettivo, sono un’epoca di benessere diffuso, un’epoca spensierata e superficiale e sicuramente molto kitsch. Sono anche un periodo finora non troppo sfruttato dalle scene teatrali, forse perché i registi che operano oggi in Italia hanno raramente meno di 40 anni e mai meno di 30, ragion per cui non colgono la distanza storica con quel periodo. Le scene che ha disegnato Gabriele Del Medico, allievo del prof. Mattioli all’Accademia delle Belle Arti di Firenze, sono sgargianti: una stazione balneare anni ’80, coloratissima e con la sua buona dose di palme. I costumi, per cui ci siamo potuti valere della consulenza della prof.ssa Cristina Giorgetti, docente di Costume alla Belle Arti di Firenze, riproducono stereotipi del periodo: telefilm tipo Magnum P.I., Madonna, Cyndi Lauper, lo stilista Jean-Paul Gaultier e il disegnatore Tom of Finland.

E, a quanto si deduce dalla locandina, anche i fotografi Pierre e Gilles.

 Non potevano mancare. La locandina è opera del grafico ed illustratore Giovanni Munari, incidentalmente il mio fidanzato. La trovo veramente meravigliosa e sinceramente divertente. Di fatto, mi viene da ridere ogni volta che la guardo.

So che questa locandina ha destato scandalo...

E chi l’avrebbe mai detto? Io no di certo. Comunque mi è stato imposto di non parlare di questo. Tutto è bene quel che finisce bene: la locandina è uscita. La vedete. Posso solo dire che, per quanto ridicolo possa essere in questo caso, mi fa comunque piacere essere considerato un provocatore.

Ma, alla fine, ne valeva la pena di sottrarre alla polvere questo intermezzo sconosciuto?

 Ognuno di coloro che ascolteranno l’opera potrà rispondere a questa domanda a suo modo. Io ne sono totalmente convinto. Trovo che il libretto (di autore anonimo) sia piuttosto ben fatto: chiaro, divertente e interessante. A fianco del consueto tema farsesco della truffa, c’è una vicenda umana molto ben delineata, non priva di risvolti oscuri, che comprende uno svenimento, un sequestro di persona e un tentato omicidio. La musica non è Gluck nè Traetta, ma, nella semplicità del suo stilizzato “stile galante”, non è mai noiosa e calza alla drammaturgia come un guanto, attingendo alla tradizione dell’intermezzo così come all’opera seria, tra minuetti, tarantelle e grandi arie di furore e di affanno. Di sicuro La finta schiava funziona molto meglio di tante opere più famose. I riscontri che ho avuto per la prima esecuzione a Modena sono stati tutti positivi. Molti non se l’aspettavano, a dire il vero. E quella era un’esecuzione in forma di concerto, che dovrebbe essere noiosa per definizione.

Pensi che in futuro troveremo La finta schiava de “lo Spagnoletto” a fianco de La serva padrona di Pergolesi nei cartelloni dei teatri?

Naturalmente no. D’altronde La serva padrona è l’unico esemplare del genere intermezzo che venga oggi eseguito con una certa costanza. Capolavori come La contadina o gli altri intermezzi di Hasse, per esempio, non vengono mai rappresentati. E dire che sono molto divertenti e sarebbero facilissimi da mettere in scena. Per non parlare di esemplari più tardi del genere, come quelli di Jommelli o di Rinaldo di Capua. Mi augurerei comunque che qualche “nome” si occupasse di dare a questo lavoro un’esecuzione più degna di quella che possiamo fornire noi studenti. Io ritengo che la meriti. E poi così, quando mi pubblicheranno l’edizione, guadagnerò quattro o cinque centesimi di diritti d’autore.

Recitativo con aria col da capo di Lucrina:

'Ora che piangi, Argiva.... Sior padroncino, non dubitate'
 
Lucrina - Arianna Donadelli, soprano
Aromato - Paolo V. Montanari, baritono
 
Orchestra 'Orazio Vecchi'
Paola Besutti, primo violino
Mario Sollazzo, maestro al cembalo
 
Registrato dal vivo - Modena, 4 luglio 2007, Teatro del Collegio San Carlo

A cura di

Arsace da Versailles