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Nel 1713 il Teatro delle Grazie in Vicenza ospitava un evento eccezionale:
coll’opera “Ottone in Villa” iniziava la sua carriera di compositore
teatrale Antonio Vivaldi, ponendo la prima pietra di una carriera che lo
doveva portare, nei 28 anni successivi, ad avere al suo attivo più di 94
Opere. In quel momento il “Prete Rosso” veneziano era già famoso in Europa
come compositore di musica strumentale: le sue prime raccolte di concerti e
cioè “L’Estro Armonico” (Opera Terza) e «La Stravaganza” (Opera Quarta)
erano già uscite dai torchi dell’editore olandese Estienne Roger e, negli
anni in cui Vivaldi si qualificava per la prima volta come operista, Johann
Sebastian Bach era intento a trascrivere per strumenti a tastiera i suoi
Concerti per violino. La riscoperta novecentesca delle opere di Vivaldi è
avvenuta dapprima quasi esclusivamente nel segno dell’opera strumentale: si
è visto in lui in primo luogo il virtuale creatore del Concerto solistico,
il più geniale sperimentatore di una varietà incredibile di timbri e colori
strumentali, il compositore il cui senso della sintesi e della costruzione
logica del discorso musicale era stato alla base dell’arte dei suoi più
illustri successori, a cominciare da Bach medesimo. Eppure nell’esistenza
del “Prete Rosso” la composizione di musica vocale ha certo occupato il
primo posto, sia per quanto riguarda l’attività creativa in sé, sia per
quanto si riferisce ai suoi rapporti col pubblico e coll’ambiente
circostante. Proprio l’ “estro” (cioè la fantasia scatenata) e la
«stravaganza” del compositore veneziano lo attiravano irresistibilmente
verso le luci delle ribalte veneziane, di fronte a cui un pubblico
ricchissimo ed eterogeneo, comprendente tutte le classi sociali, conveniva,
in più di 15 Teatri, ad ascoltare i lavori dei più famosi compositori
dell’epoca (da Scarlatti ad Albinoni) ai quali offrivano la loro
collaborazione letterati quali Zeno e Goldoni e scenografi del livello di un
Canaletto. Vivaldi affrontava anche audacemente e appassionatamente il lato
organizzativo.imprenditoriale dell’attività operistica, divenendo direttore
degli spettacoli musicali del Teatro Sant’Angelo in Venezia e organizzando
numerose stagioni con proprie opere nei più importanti centri italiani e
all’estero, I suoi legami assai intimi colla cantante Anna Giraud (o Girò)
non potevano che influire fortemente e profondamente sulla sua conoscenza
dei problemi del canto ed avvicinano sempre di più alla composizione vocale.
Accanto ai circa 20 melodrammi rimastici, nonché al numero vastissimo di
Cantate e altre composizioni sacre e profane, troviamo fra le composizioni
vivaldiane un certo numero di “Serenate” (“a tre” o “a quattro voci”). Si
tratta per lo più di composizioni di circostanza: ciascuna di esse consiste
in una serie assai nutrita di Arie o (assai raramente) pezzi di insieme,
collegati da brevi Recitativi. Mentre la qualità dei singoli brani che
costituiscono ciascuna ditali Serenate è spesso di grandissimo valore, il
loro accostamento appare assai eterogeneo, l’unico vero principio
unificatore essendo costituito da un libretto dalla trama assai labile e
quest’ultimo apparendo, a sua volta, puramente un pretesto per collegare fra
di loro pagine musicali destinate precipuamente a far ben figurare i
cantanti e, eventualmente, a festeggiare il personaggio a cui la Serenata è
dedicata: nel caso de “La Senna” si tratta di Luigi XV, Re di Francia.
I rapporti fra Venezia e la Francia erano a quell’epoca, sul piano musicale,
assai stretti. Mentre il “Mercure de France” parla di feste che si
svolgevano in Venezia in onore dei vicini d’oltre Alpe (talora su zattere
appositamente costruite) sappiamo che a Luigi XV venivano resi in Venezia
assai spesso omaggi artistici di grande importanza. Fra le opere di Antonio
Vivaldi, oltre a “La Senna Festeggiante” appaiono dedicate al sovrano
francese altre tre pagine assai importanti: il “Te Deum” e la “Serenata a
tre voci” intitolata “L’Unione della Pace e di Marte”, entrambe composte per
festeggiare nel 1727 la nascita delle due figlie di Luigi XV “. . .le due
Reali Principesse gemelle Madamma di Francia e Madamma di Navarra”, nonché
“Gloria e Himeneo”, scritto in occasione delle nozze del Sovrano.
A tutt’oggi non sappiamo, non essendo possibile attribuirle una data (né
ricavare elementi a tal fine del libretto), per quale specifica occasione
sia stata scritta la “Serenata a tre” (cioè per tre cantanti e orchestra)
“La Senna Festeggiante” . Il libretto, che segue assai pedissequamente e
senza originalità la moda cortigiana dell’epoca, abbonda in piaggerie ed
enfatici elogi del Re francese senza alcun dato storicamente determinato, se
non la giovane età del sovrano. Esso è opera di Domenico Lalli, secondo
Goldoni uno dei librettisti favoriti di Vivaldi (autore del libretto di
numerose opere vivaldiane a cominciare dall’ «Ottone in Villa”). Domenico
Lalli è il nome assunto in Venezia dal poeta napoletano Sebastiano Biancardi
(1679-1741), fuggito da Napoli in seguito ad un’accusa di furto e
rifugiatosi nella Serenissima. Pur nella sua apparente sconnessione ed
insulsaggine, il retorico libretto celebrativo appare tuttavia sapientemente
ricco di spunti per il musicista sia sul piano delle immagini che su quello
puramente fonico. Vivaldi ha trovato anche qui nella poesia di LalIi ricca
possibilità di differenziare e di elaborare i singoli brani.
Il soggetto del libretto (esposto qui di seguito) è assai scarno. La vicenda
è statica e Vivaldi riesce con fatica ad animare i “Recitativi”, cioè i
dialoghi fra i tre personaggi: siamo ben lontani dai mirabili e drammatici
“Recitativi” di opere quali “Orlando Furioso” o “Tito Manlio”. L’interesse
grandissimo che il Prete Rosso annetteva al Recitativo (e che contrastava
cogli usi assai sciatti dell’epoca) risulta anche qui dalla delicata e acuta
sensibilità con cui il Compositore è pronto a cogliere i pochi spunti capaci
di evocare immagini suscettibili di traduzione musicale:
l’esempio più evidente è forse il Recitativo a tre “Tutto muor, tutto manca”
in cui mirabilmente è creato un clima di sgomento e di abbandono e le
sonorità si spengono lentamente su un audacissimo passaggio armonico,
laddove il testo evoca lo spegnersi del tuono in lontananza; ma abbiamo
alcune mirabili gemme sparse qua e là per l’Opera, quali la stupenda frase
della soprano “Colma d’amaro duol” (nel Recitativo n. 8). Ben diverso è il
discorso per quanto riguarda le Arie, cioè i brani dedicati all’esibizione
virtuosa degli interpreti vocali: da questo punto di vista (che è,
d’altronde, di gran lunga il più importante) “La Senna Festeggiante” appare
una delle più cospicue composizioni vocali vivaldiane, per la lussureggiante
varietà degli atteggiamenti melodici, del colore strumentale, della
realizzazione espressiva. Le Arie sono in totale 11 (quattro per ciascuna
delle interpreti femminili e tre per l’interprete maschile) e ad esse si
aggiungono tre duetti (riservati alle voci femminili), due Ouvertures
strumentali (una per ciascuna delle due parti in cui si divide il lavoro) e
tre pezzi d’insieme (uno dei quali richiede, ad libitum, l’aggiunta di una
quarta voce).
I brani musicalmente e vocalmente più importanti sono probabilmente quelli
dedicati al protagonista “La Senna”, un baritono-basso dall’estensione
vocale incredibilmente ampia (la sua parte abbraccia più di di due ottave).
Sappiamo che Vivaldi componeva tenendo presenti le specifiche qualità
caratteristiche naturali dei suoi interpreti: l’eccezionale estensione della
parte de “La Senna” fa pensare che Vivaldi si sia imbattuto in un interprete
dotato di qualità straordinarie e abbia concepito il lavoro principalmente
per lui (tessiture simili si trovano d’altra parte presso i protagonisti di
alcune opere teatrali quali il “Tito Manlio”). Le tre Arie dedicate a “La
Senna” sono bellissime e sapientemente differenziate: non solo sfruttano al
limite estremo le possibilità virtuosistiche ed espressive del protagonista
ma testimoniano, anche nell’accompagnamento, di grandissima cura e sapiente
ricerca fonica e descrittiva. Difficile sarebbe esprimere una preferenza fra
questi tre capolavori maggiori dell’arte vivaldiana:
la prima Aria (n. 5) in cui la descrizione dello scorrere delle acque
fornisce lo spunto al compositore per spingere a gareggiare in agilità il
solista cogli archi che lo accompagnano in un trasparente gioco di colori
vivaci e brillanti; la seconda (n. 10) ha come sottofondo la descrizione,
assai comune all’epoca, della tempesta, ma obbliga il protagonista ad
associare al vintuosismo nobile grandiosità; l’ultima Aria de “La Senna” è
invece un’esaltazione del Sovrano e ci porta in un clima di austera e nobile
grandiosità resa affascinante e singolarissima dagli audaci salti della
melodia, che raggiungono i massimi limiti concessi dalla voce umana.
Se la parte maschile è sotto certi aspetti la più interessante, anche in
considerazione delle sue particolari caratteristiche di struttura, le pagine
affidate alle protagoniste femminili sono certo altrettanto belle, varie,
ricche di interesse per l’ascoltatore. Troppo lungo sarebbe analizzare le
caratteristiche di ciascuna, nonché sottolineare la varietà espressiva per
cui ognuna di queste Arie è un universo a sé. Notevolissima, nell’Aria n. 1,
l’imitazione del canto dell’usignolo, con risposte che si perdono nel
“pianissimo” (la tematica di questo brano allude sottilmente al ben noto
tema introduttivo del Concerto “La Primavera” da “Le Stagioni”). Nell’Aria
n. 17 «Così sol nell’Aurora” la contrapposizione fra il brillante
virtuosismo della voce e il colorito sommesso degli archi in sordina, dà
luogo a un rincorrersi di scintille, a un accendersi e spegnersi di accenti
talora incisivi, talora languidi creando un brano fra i più tipicamente
vivaldiani dell’intero lavoro (è avvertibile la citazione del terzo tempo
del Concerto per flauto op. X n. 5 e, alla lontana, di un’Aria dell’
«Orlando Finto Pazzo”). La solennità e la limpidezza melodica dell’ultima
Aria della soprano, quasi haendeliana nella sua nobile maestà, prepara
mirabilmente il grandioso quartetto finale.
Se la natura del Prete Rosso risalta ovunque colle sue caratteristiche più
tipiche e più mature, nel lavoro sono spesso presenti (talora coll’esplicito
riferimento autografo “alla francese”) le caratteristiche musicali di quello
stile che va appunto sotto il nome di “stile francese”. Non si tratta qui
solamente dei cosiddetti “ritmi puntati”, ma di molte peculiarità melodiche
e armoniche e di una certa danzante leggiadria francese che permea perfino
le pagine più solenni (vedi la chiusa delle due parti). Tale riferimento ha
un preciso significato, dato il soggetto e il dedicatario della
composizione; ci si chiede se il lavoro non possa essere stato scritto per
interpreti, almeno in parte, francesi. Un elemento in favore ditale ipotesi
potrebbe essere la curiosa grafia di alcune parole (per esempio «sceme” per
«seme”), che sembrerebbero scritte in modo da ottenere l’esatta pronuncia
italiana da un francese. Concludiamo con quattro brevi osservazioni
testuali:
1) Ognuna delle due parti inizia con un brano strumentale in cui Vivaldi fa
riferimento esplicito allo “stile francese”. Che tale riferimento sia più
che altro un omaggio formale, è dimostrato dal fatto che due brani compaiono
circa integralmente in altre composizioni di Vivaldi che nulla hanno di
francese. Mentre la Sinfonia che fa da introduzione alla prima parte non è
in sostanza che un tipica “Sinfonia avanti l’opera” vivaldiana, la
“Ouvertur” della seconda parte è assai più vicina alla forma dell’
“Ouverture” francese col suo solenne inizio puntato, seguito da un “fugato”
assai ricco di interessanti spunti contrappuntistici.
2) La strumentazione del lavoro è assai semplice. La quasi totalità della
partitura è scritta su quattro righi, come se l’Autore avesse pensato
esclusivamente all’Orchestra d’archi; due flauti dolci compaiono in una
delle Arie; nei brani vocali d’insieme troviamo l’indicazione assai curiosa
“due oboi o più”, “due flauti o più”. Era, d’altra parte, consuetudine
dell’epoca che gli strumenti a fiato presenti per l’esecuzione di qualche
brano potessero ad libitum venire impiegati in altri per raddoppiare gli
archi.
3) La scrittura dei brani d’insieme (che sono a tre parti) è tale da far
supporre che essi fossero destinati ad essere cantati dai tre solisti senza
l’intervento di un vero e proprio Coro. Tale ipotesi diventa certezza di
fronte all’indicazione apposta al quartetto finale in cui l’autore usa il
singolare nel richiedere
l’aggiunta “ad libitum” di un tenore (“Sarebbe molto bene far cantare questo
Tenore ma però non è necessario”).
4) È lecito supporre, basandosi anche su elementi bibliografici, che una
delle Arie (e precisamente l’Aria n. 16) sia stata introdotta per sostituire
l’Aria n. 17 che la segue nel manoscritto. In un’esecuzione pubblica, una
sola delle due Arie dovrebbe pertanto venire eseguita: non abbiamo voluto
privare invece l’ascoltatore del disco (che è un documento di tipo diverso)
della possibilità di ascoltare entrambi i brani. Anche dei due Recitativi n.
16 e n. 17 (che hanno identiche parole) si dovrà in pubblico eseguire solo
quello corrispondente all’Aria scelta.
da uno scritto di Claudio Scimone
Soggetto
Parte prima
Due personaggi femminili e cioè l’Età dell’Oro e la Virtù arrivano sui
bordi della Senna; ricordando quali sofferenze e privazioni abbiano
sofferto altrove, esse proclamano la loro felicità e la gioia nel
ritrovarsi in questo luogo di pace e di serenità. La Senna le accoglie con
affetto e solenne benevolenza. D’ora in poi esse non dovranno più
allontanarsi e saranno felici sulle sue rive. Mentre lo stuolo dei bianchi
cigni vola festante intorno alle due ospiti, Fauni e Ninfe vengono
chiamati a danzare festosamente intorno ad esse.
Parte seconda
Festeggiate le due ospiti, la Senna le conduce, per fare più completa la
loro felicità a rimirare il trono su cui è assiso il giovane sovrano
(Luigi XV). Giunti al suo cospetto, i tre protagonisti ne ammirano e
celebrano le eccelse virtù.
Libretto
A cura di Arsace
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