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Con il teatro in musica giunsero a Napoli molte donne
straniere cantatrici, che finivano sempre per turbare la pace delle famiglie
napoletane: “ogni anno” scrive il Celano, discorrendo del teatro di San
Bartolommeo “vi va qualche casa a male per cagion delle canterine, che vi
rappresentano, e che cantando incantano”.
E come se le donne forestiere non dessero già abbastanza da fare, nel 1671
apparve tra i «Febi armonici» del San Bartolommeo anche una pericolosa
napoletana, anzi pugliese, Giulia, o, come si diceva in dialetto, “Ciulla”
de Caro. Era, figlia di un cuoco di Viesti sul Gargano, e venuta a Napoli
giovinetta, dopo aver menato vita dissoluta e avere sposato e poi
abbandonato un saltimbanco e burattinaio romano, s'era a poco a poco
sollevata di grado con l'imparar musica e diventare «virtuosa».
E colei, che per l'innanzi a mala pena canticchiava arie più volgari («la
sfacciata», l'« aer nuovo» e la «varchetta»), si udì ad un tratto beare gli
orecchi della gente coll' « Amor, ch'io viva più non è possibile»; e la si
vide annodare molteplici intrighi d'amore con gentiluomini napoletani. Onde
fu mandata per penitenza in monasteri, e, non cangiando scacciata da Napoli.
Ma ritornò trionfante nel 1671, fatta più garbata di linguaggio e di
atteggiamenti, e più furba, e protetta da amanti sempre scelti e più
potenti.
Venutole in fantasia di figurare tra le donne di teatro, cominciò a
mostrarsi al passeggio in ricco cocchio, fastosamente abbigliata come per la
scena, con gran cappello dalle folte piume di vario colore e col bastone in
mano.
Era allora impresaria del San Bartolommeo una vecchia commediante, Cecilia
Siry Chigi, come si vede dai libretti di 2 opere che si dettero in quel
teatro nel 1671 e 1672, L'ANNIBALE IN CAPUA e il DEMETRIO (questa seconda su
poesia di Giacomo dell'Angelo).
Con lei si accordò la Ciulla; ma il suo esordio fu infelice, accolto da risa
e ironici applausi della platea. Sicché, per allora, dové rinunziare al suo
capriccio. Seguirono, a quanto sembra, senza di lei, le altre opere del 1672
e 1673, date dai Febi armonici: L'ERCOLE IN TEBE, poesia del Moniglia, il
CALIGULA DELIRANTE, e il GIRELLO, poesia dell'Acciaiuolo e musica forse di
un tal Pistochino.
La Ciulla meditava, intanto, la rivincita, e per ottenerla persuase uno dei
suoi amanti a prendere l'appalto del San Bartolommeo, facendosi insieme
affidare da costui la formazione e direzione di una nuova compagnia di
«armonici». E la formò senza risparmio, invitando a Napoli con larghi
stipendi le voci più leggiadre e più perfette d'Italia, il cantante Sonetto,
la cantatrice Marinetta, l’altra e famosa canterina romana Caterina Porri,
allieva del padre Enea che era il direttore dei musici di San Pietro: i
quali tutti, giunti a Napoli, furono accolti e ospitati in casa della De
Caro. Anche le scene vennero rinnovate e rese superbissime. Il libretto
prescelto per l'inaugurazione fu il MARCELLO IN SIRACUSA, poesia del Noris,
musica dello Ziani, ristampato in Napoli con prologo di Giovanni Cicinelli e
dedicato al viceré marchese di Astorga da “Giulia de Caro armonica”; la
quale vantava di avere, “con le sue incessanti fatiche e con applausibile
stento, uniti in questo nobil teatro tutte le Calliopi e gli Orfei, che
hanno indotto stupori di cielo, non che all'Italia, al mondo”.
Nel novembre del 1673 l'opera andò in scena; e quantunque il satirico poeta,
che narrò le gesta di Ciulla, affermi che nel bel principio dei suoi
gorgheggi a lei mancò la voce:
Aspettata, mirata, inorgoglita,
calpestando tesor, move il bel piede;
ma, mentre ai plausi canticchiando invita,
all'improvviso ammutolir si vede:
perde la voce...
sicché «uscì pallone e se n'entrò vessica»; sembra tuttavia che la
passeggera contrarietà non portasse conseguenze, perché egli stesso mostra
la sua eroina poco dopo, tra gran concorso di spettatori, sicura di sé, che
«lega coi labbri e fulmina cogli occhi».
Il 27 novembre il Viceré si recò ad udirla all'Opera; e qualche settimana
dopo essa metteva in scena il secondo dramma della stagione, l’ERACLIO. Né
solamente cantò al San Bartolommeo, ma anche, nel settembre 1674, in un
dramma musicale dato in casa del principe di Cursi Cicinelli, a Mergellina,
alla presenza del Viceré; come altra volta il vecchio Cicinelli fece cantare
in Mergellina, nell'ora del passeggio, lei e un'altra canterina, che stesero
le loro voci «dalla bocca di due instrumenti matematici, come due imbuti di
stagno, alquanto lunghi di canna e grossi, nel fine dei quali sono due
imbuti da taverna, ma grandi da dodici palmi di ruota e vuoti, che portano
la voce due miglia lontano: inventione nuova venuta da Germania, smaltita et
allignata in Napoli, ch'è l'asilo di tutti li dispendi, per impoverire
ognuno che vuol fare il simile a gara dei maggiori, senza pensare a guai ».
I drammi musicali del 1674 e 1675, dei quali si ha notizia, sono i seguenti:
IL GENSERICO, poesia del Beregani, musica del Cesti, 6 novembre 1674.
LA STELIDAURA VENDICATA, poesia di Andrea Perrucci, musica di Francesco
Provenzale, 1674, nel Real Palazzo; e anche in casa del Cicinelli.
L'ORONTEA, poesia del Cicognini, musica del Cesti, « rinnovata per un
terzo», 1674, forse data nel palazzo della principessa di Avellino, alla
quale è dedicata dai Filomolpi.
L’ATTILA, poesia del Noris e musica probabilmente dello Ziani, carnevale
1675.
LA DORI, 6 novembre 1675, nel Real. Palazzo.
In quest'ultimo dramma cantò la Ciulla, diffamata a segno per la vita
scandalosissima che conduceva da non trovare compagnia di buoni musici,
perché «ogni virtuoso comico è tenuto per infame se nel pubblico teatro
mercenario in queste compagnie si mescolasse »; e ci volle l'ordine del
Viceré perché tre musici di palazzo prestassero il loro concorso. Ma dovette
essere una delle ultime volte che la Ciulla comparve come artista: il
poemetto satirico del Muscettola, La Carilda, che narrava la biografia di
lei e corse allora per Napoli, fu come l'elogio funebre della sua vita
galante, perché nel 1676, rimasta vedova (e si disse, benevolmente, che
avesse fatto ammazzare il primo marito), sposò un giovane di buona famiglia
napoletana; e ancora per 20 anni poté in tranquilla vita familiare godere la
gran ricchezza che aveva saputo mettere assieme.
A cura di
Arsace
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