My Lord
Crederei di morire ingrato se più tardassi a
pubblicare al mondo una parte delle tante, e tante grazie, che della VOSTRA
GRANDEZZA mi sono state generosamente compartite in Italia, in Germania, in
Fiandra, in Inghilterra, e massimamente nel Vostro amenissimo Giardino di
Paffosgrin, ove per mio sommo onore essendovi più, e più volte compiacciuto
i farmi ammirare la vastità di que’ pensieri ch partoricono Vaticinj, la
maraviglia non mi lasciava contemplare né la vaghezza del sito, né la rarità
dell’Arte, (a) né i proigj della Natura.
Ma qual umile attestato potrò mai darvi, o SIGNORE, delle mie infinite
obbligazioni se’l palesarle fassi mia gloria, e se la più viva riconoscenza
diventa ambizione? Meglio è dunque ch’io le rimandi al cuore, ed ivi in un
rispettoso silenzio restino eternamente impresse; riserbando la penna solo
per quelle fervorose suppliche, che con tanta sommissione ora Vi porgo,
affinchè La GRANDEZZA VOSTRA voglia benignamente degnarsi di gradire
l’offerta di quelle mie deboli OSSERVAZIONI concepite da quel debito comune
ad ogni Professore di conservare alla Musica le sue proprie bellezze, e dal
mio in particolare per esser io stato il primo (o fra i primi) a scoprire il
nobilissimo genio della Vostra Potente, e generosa Nazione verso dela
medesima. Comunque siasi, certo è, che non avrei ardito mai di dedicarle ad
un EROE ornato di gloriosissime azioni, come siete, se ‘l Canto non fosse
una delizia dell’anima più grande della VOSTRA.
Onde col più profondo ossequio ho giusto motivo di dirmi
DELLA VOSTRA GRANDEZZA
Umiliss. Divotiss., & Obbligatiss. Servo
Pierfrancesco Tosi
(a) V’è un albero altisimo che poduce tulipani bellissimi.
Lettore, Varie
L’Amore è una passione, che offusca l’intelletto. Se tu sei
cantante sei mio rivale, e se sei Moderno io sono Antico. Ma se l’affetto
immenso, che abbiamo per la bella, ed ottima Musica ci toglie la ragione,
almeno né nostri lucidi intervalli siamo egualmente generosi: Tu in
perdonarmi gli errori, che scrivo; Io in compatirti quelli, che fai. Se poi
per tua gloria sei letterato sappi, che per mia vergogna sono ignorante; se
non lo credi, leggi.
Varie sono le opinioni degli antichi Storici sopra l’origine della Musica.
Plinio crede, che Ansione ne sia l’Inventore: I greci sostengono, che sia
stato Dionisio: Polibio gli Arcadi: e Svida, e Boezio ne danno tutta la
gloria a Pitagora asserendo, ch’egli dal suono di tre Fàbbrìli Martelli di
peso differente ne ritrovasse il Diatonico, a cui poscia Timoteo Milesio
aggiungesse il Cromatico, e Olimpico, o sia Olimpo l’Enarmonico. Nelle sacre
Carte però si legge, che Jubal della stirpe di Caino fuit Pater Canentium
Cithara, & Organo Strumenti probabilmente di più corde armoniose, dal
che s’intende, che la Musica sia nata poco dopo del Mondo.
Per sicurezza di non errare ella ascoltò molti precetti dalla Matematica, da
cui dopo diverse Istruzioni di linee, di numeri, e di proporzioni si
chiamata col dolce nome di Figlia, affinché meritasse quelli di Scienza.
E’ da supporsi, che nel corso di migliaia d’anni la Musica sia stata sempre
la delizia del genere umano, mentre dall’eccessivo piacere, che ne traevano
i Lacedemoni bisognò, che quella Repubblica esiliasse il suddetto Milesio,
acciò gli Spartani più non abbandonassero gli economici, i politici, e i
militari interessi.
Parmi però impossibile, ch’ella abbia fatta mai tanta pompa della sua
bellezza quanto negli ultimi Secoli, quando con la più nobile, e soave
maestà comparve alla gran mente del Palestina, a cui lasciò di se un divino
originale perché servisse a posteri d’immortale esempio; E vaglia’l vero, la
Musica colla dolcezza della sua armonia è giunta tant’oltre (mercé
l’intendimento sublime dè Maestri insigni anche dè tempi nostri) che sebben
foss’Arte liberale, dalle Compagne non gli si potrebbe contrastar con
giustizia il principato.
Forte argomento me ne porge quella impressione soavissima, che a distinzione
di tutte le altre la Musica fa su gli animi nostri, per ciò siamo vicini a
credere, che faccia una parte di quella beatitudine, che in Paradiso si
gode.
Premessi questi vantaggi, il merito dè Vocalisti dovrebb’essere distinto
anch’esso per le difficoltà particolari, che l’accompagnano: Abbia un
Cantante intelligenza fondamentale capace di superar con franchezza ogni più
scabrosa composizione: Possegga di più un’ottima voce, e se ne vaglia con
artificio, non per questo meriterà nome di singolar Professore, quand’ei
manchi d’una pronta variazione, difficoltà, che nelle altr’Arti non
s’incontra.
Dirò finalmente, che i Poeti, i Pittori, gli Scultori, gli Architetti. E gli
stessi Compositori di Musica prima di esporre le loro Opere in pubblico
hanno tutto quel tempo, che basta per emendarle, e ripulirle, ma pel Cantor
che falla non v’è più rimedio, l’errore è incorreggibile.
Quanta applicazione poi debba esser quella di chi è in obbligo di non errare
nelle produzioni improvvise dell’ingegno, e quale studio convenga a chi deve
soggettar una voce in moto quasi sempre diverso ad un’Arte così difficile è
più da immaginarsi, che da descriversi. Confesso ingenuamente, che ogni
qualvolta il pensiero mi guida a riflettere, che l’insufficienza di molti
Maestri, e gl’infiniti abusi, che questi lasciano introdurre rendono inutili
a loro Scolari, e l’applicazione, e lo studio, non posso bastantemente
meravigliarmi, che frà tanti Professori di prima sfera, che hanno scritto,
che per insegnare come trovar si debba la vera armonia mediante i precetti
del Contrappunto, e chi con ammestramenti d’Intavolature, o di Pratica al
Gravecembalo per facilitar le laboriose vie agli Organisti, non vi sia stato
mai (per quanto io sappia) chi abbia intrapreso di far conoscere se non che
i primi Elementi a tutti noti, celando l regole più necessarie per cantar
bene; Nè giova il dire, che i Compositori intenti solo allo scrivere, e i
Sonatori ad accompagnare non devono ingerirsi in ciò, che a Vocalisti
appartiene, perché ne conoscono alcuni capacissimi di disingannar chi se lo
pensasse.
L’incomparabile Zarlino nella terza parte delle sue Istituzioni armoniche a
cap. 46. appena cominciò ad inveire contra di chi a suoi giorni cantava con
qualche difetto, che si fermò, e voglio credere, che se fosse passato più
oltre, què documenti invecchiati da quasi due Secoli non servissero al gusto
raffinato dè tempi nostri. Rimproveri più che giusti merita bensì la
negligenza di molti Cantanti celebri, che quanto più sono stati e sono
d’intendimento di gran lunga superiore agli altri, tanto men possono
giustificare il loro silenzio (né anche a titolo di modestia) cessando
questa d’esser virtù, allorché pregiudica al pubblico interesse.
Mosso io quindi non da vana ambizione, ma dallo svantaggio, che a diversi
Professori ne risulta, non senza ripugnanza, ho determinato d’essere il
primo ad esporre sotto gli occhj del mondo queste mie poche Osservazioni col
solo fine di aggiugnere (se mi riesce) qualche lume a chi insegna, a chi
studia, e a chi canta.
Cercherò in primo luogo di far comprendere qual sia l’obbligo del Maestro
per ben istruire un principiante: Parlerò secondariamente di ciò, che allo
Scolaro convenga: e proccurerò da ultimo con maggiori riflessi di agevolar
la strada ad un cantor mediocre affinché giunga a migliorar condizione.
Ardua, e forse temeraria è l’impresa, ma quando anche non corrispondessero
all’intenzione gli effetti, almeno, inciterò gl’intelligenti a più
ampiamente, e correttamente trattarne.
Se taluno dicesse, ch’io dovea esimermi dal pubblicar cose già comuni ad
ogni Professore, potrebbe ingannarsi, la ragione si è, che fra queste
Osservazioni ve ne son molte, che per non averle mai da altri intese le
tengo per mie, e come tali è probabile, che non sieno state universalmente
conosciute. Abbiano così la sorte d’esser approvate da chi ha intelligenza,
e gusto.
Sarebbe superfluo bensì s’io dicessi, che gl’insegnamenti verbali non
servono a cantanti (per lo più) che a non errare, poiché ognuno sa che la
stampa è incapace di ridurli in atto. Dall’evento però di questi, o m’incoraggirò
ad inoltrarmi a nuove scoperte in vantaggio della professione, o confuso (ma
non sorpreso) soffrirò in pace, che i Maestri col loro nome in fronte
pubblichino la mia ignoranza, acciò possa disingannarmi, e ringraziarli.
Per l’intenzione poi, che ho di dimostrare una quantità di moderni abusi, e
difetti, che si sono sparsi per la canora repubblica, affinché (se mai lo
fossero) fosser anche corretti, non vorrei, che quegli che per debolezza
d’ingegno, o per negligenza di studio non han potuto, o voluto emendarsene
s’immaginassero, che con malizioso disegno gli avessi dipinti colle loro
imperfezioni al naturale, perché altamente protesto, Che se attacco con poca
dolcezza per troppo zelo gli errori, onoro però chi li commette;
Insegnandomi un Morale Spagnuolo, [Azia a ti accusas quando murmuras] Che
le Satire tornano a Casa, e il Cristianesimo dice qualche cosa di più a
chi ha religione. Parlo generalmente, e se talvolta mi ristringo al
particolare sappiasi, che non mi servo d’altro originale, che del mio in cui
pur troppo vi è stata, e v’è materia degna di critica senza cercarla
altrove.
Osservazioni per chi
insegna ad un soprano
Hanno tanta facilità d’insinuarsi negli animi puerili i
difetti Musicali, e s’incontra tale difficoltà in trovar chi li corregga
nascendo, che sarebbe d’uopo, che gli ottimi Cantori se ne pigliassero
l’impegno, poiché meglio degli altri conoscono i mezzi per riuscirvi, e con
più intelligenza possono da i primi Elementi condurre l’abilità dello
Scolaro alla perfezione; ma non trovandosi in oggi fra loro (se non erro)
chi non ne odj la memoria è forza di riservarli per la finezza
dell’artificio in cui veramente consiste quel dolce incanto, che se’n va per
la strada più breve a dilettare il cuore.
L’istruzione quindi dè fondamenti finché lo Scolaro canti franco bisogna,
che ad un Professor mediocre appartenga, purché sia di costumi illibati,
diligente, pratico, senza difetti di naso, e di gola, e che abbia agilità di
voce, qualche barlume di buon gusto, facile comunicativa, perfetta
intonazione, e pazienza, che resista alla più dura pena del più nojoso
impiego.
Prima, che un Maestro ornato di circostanze si necessarie cominci ad
insegnare, legga i quattro versetti di Virgilio Sic vos non vobis & c.
poiché (se non lo sono) pajon composti espressamente per lui; Dopo di averli
ben considerati consulti la propria costanza, imperocché (parlando vulgare)
rincresce a chi ha sete di portar il vino agli altri, e non poter bere. Se’l
tempo è propizio per chi canta, giusto è, che lo sia anche per chi insegna.
Soprattutto senta con orecchio disinteressato se chi brama d’imparare abbia
voce, e disposizione per cantare, affinché non sia in obbligo di rendere
strettissimo conto a Dio del denaro malamente speso dà Genitori, e di aver
ingannato il Figlio nella perdita irreparabile di quel tempo, che in qualche
altra Professione gli sarebbe stato di profitto. Io non parlo a caso. I
Maestri antichi distinguevano il ricco, che voleva applicarsi alla Musica
per suo nobile ornamento, dal povero, che cercava di studiarla per bisogno;
Insegnavano al primo per interesse, e il secondo per carità, se in vece di
denaro coprivano in lui talenti per farne un’Uomo. Pochissimi moderni
ricusano Scolari, e purché questi paghino, poco lor preme se la loro
ingordigia rovini i Professori, e distrugga la Professione.
Signori Maestri, l’Italia non sente più le voci ottime dè tempi andati,
particolarmente nelle Femmine, e a confusione dè colpevoli ne dirò il
perché: L’ignoranza non fa sentire à Genitori la voce pessima delle loro
Figlie come la miseria lor fa credere, che cantare, e arricchire sia lo
stesso, e che per imparar la Musica basti un po’ di bel viso: Potete voi
istruirle?
Potete forse insegnar a quelle a cui il Canto…. La modestia non vuol ch’io
più m’inoltri.
Se l’Istruttore è umano, non consiglierà mai lo Scolaro a perdere una parte
della umanità forse con pregiudicio dell’Anima.
Dalla prima lezione fino all’ultima si ricordi il Maestro d’esser debitore
di tutto quello, che non insegnò, e degli errori, che non avrà corretti.
Sia moderatamente severo facendosi temere senza farsi odiare. So, che non è
facile di trovare il mezzo tra’l rigore, e la dolcezza, ma so ancora, che
sono nocivi gli estremi, poiché dalla eccessiva rigidezza sovente nasce
l’ostinazione, e dalla soverchia indulgenza lo sprezzo.
Non parlerò della cognizione delle note, del loro valore, della battuta,
dello spartire, dè tempi, delle pause, degli accidenti, né d’altri principj
triviali; perché sono generalmente noti.
Oltre la Chiave di C sol fa ut insegni allo Scolaro di legger tutte le altre
spostate, acciò non gli succeda quello, che spesso accade a certi Vocalisti,
i quali nelle composizioni a Cappella non sanno distinguere senz’Organo il
Mi dal Fa per non avere alcuna cognizione della Chiave di G
sol re ut, e se ne sentono poi sconcerti così indecenti al servizio di Dio
né Sacri Templi, quanto vergognosi a chi s’invecchia senza saper dove le
note stiano di Casa. Io tradirei la mia sincerità se non dicessi, che chi
non insegna regole essenziali come queste pecca, o d’ommissione, o
d’ignoranza.
Susseguentemente gli faccia imparare di leggere quelle per Bmolle,
massimamente né componimenti, che ne hanno quattro alla Chiave, e che su le
loro seste del Basso per lo più chiedono anche il quinto per accidente,
affinché lo Scolaro possa trovare in essi il Mi, che non è troppo
facile a chi il poco Studio fa credere, che tutte le note col Bmolle si
chiamino Fa; Che se ciò fosse vero, sarebbe infallibilmente
superfluo, che le note fossero sei, quando cinque avessero l’istesso nome. I
Francesi ne hanno sette, e con quella figura di più risparmiano a loro
Scolari la fatica d’apprendere le mutazioni ascendendo, e discendendo; ma
noi altri Italiani non abbiamo, che l’Ut, Re, Mi, Fa, Sol, La, note, che
bastano egualmente per tutte le Chiavi a chi le sa leggere.
Procuri il Maestro, che nel solfeggiar la Scaletta le note sieno dallo
Scolaro perfettamente intonate. Chi non ha delicatezza d’orecchio non
dovrebbe impegnarsi, né d’insegnar, né di cantare, non essendo assolutamente
tollerabile il difetto d’una voce, che cresce, e cala come il flusso, e il
riflusso del Mare. Vi rifletta con tutta l’attenzione l’Istruttore, perché
ogni Cantante, che stuona perde immediatamente tutte le più belle
prerogative, che avesse. Io posso dir senza mentire, che (a riserva di pochi
Professori) la moderna intonazione è assai cattiva.
Nell’istesso solfeggio cerchi il modo di fargli guadagnare a poco a poco gli
acuti, acciò mediante l’esercizio acquisti tutta quella dilatazione di
corde, che sia possibile; Avverta però, che quanto più le note son’alte,
tanto più bisogna toccarle con dolcezza, per evitar gli strilli.
Deve fargli intonare le mezze voci secondo le vere regole. Non tutti sanno,
che vi sia il Semituono maggiore, e il minore, perché il divario non si può
conoscere dall’Organo, né tampoco dal Gravecembalo, quando questo non abbia
i tasti spezzati. Un Tuono, che di grado passi ad un’altro si divide in nove
intervalli quasi insensibili, che in Greco (se non m’inganno nominansi
Commi, cioè a dire la più piccola parte, e in nostra favella Còme,
cinque delle quali formano il Semituono maggiore, e quattro il minore; V’è
opinione però, che non sieno più di sette, e che il più gran numero della
loro metà componga il primo, e il minore il secondo; Il mio debole
intelletto non la trova sussistente, imperocché l’udito allora non avrebbe
alcuna difficoltà di distinguere la settima parte d’un Tuono, e ne incontra
una ben grande per iscoprir la nona. Se si cantasse continuamente al suono
dè suddetti due Strumenti questa cognizione sarebbe inutile, ma da che
s’introdusse da Compositori l’uso di far sentire in ogni Opera una quantità
d’Arie accompagnate solo dagli Strumenti d’arco diventa così necessaria, che
se (per cagion d’esempio) un Soprano intuona il D la sol re diesis acuto,
come l’E la fa, chi ha orecchio fino sente, che stuona, perché quest’ultimo
cresce. Chi non ne restasse soddisfatto legga molti Autori, che ne trattano,
o consulti i più abili Violinisti. Nelle parti di mezzo non è poi così
facile di sentirne la differenza, bench’io creda, che tutto ciò, che si
divide sia distinguibile. Di questi due semituoni parlerò più diffusamente
nel Capitolo dell’Appoggiatura, acciocché gli uni non sieno confusi cogli
altri.
Insegni allo Scolaro d’improntare con perfetta intonazione,e prontezza ogni
salto di voce nella Scaletta, e lo tenga applicato, anche più del bisogno a
questa urgentissima lezione, se desidera, che canti franco in poco tempo.
Se’l Maestro non sa comporre si provvegga di buoni solfeggi di stile
diverso, che insensibilmente passino dal facile al difficile a misura del
profitto, che scorge nello Scolaro; A condizione però, che nelle loro
difficoltà sieno sempre naturali, e gustosi per interessarlo a studiarli con
piacere, e ad impararli senza noja.
Frà le maggiori diligenze del Maestro una ne richiede la voce dello Scolaro,
la quale, o sia di petto, o di testa deve uscir limpida, e chiara senza che
passi pel naso, né in gola la si affoghi, che sono due difetti i più
orribili d’un Cantore, e senza rimedio, quando han preso possesso.
La poca pratica di taluno, che insegna di solfeggiare obbliga chi studia a
sostener le semibrevi con voce sforzata di petto su le corde più acute, e
finalmente ne siegue, che di giorno in giorno le fauci sempre più
s’infiammano, e se lo Scolaro non perde la salute perde il Soprano.
Molti Maestri fanno cantare il Contralto à loro Discepoli per non sapere in
essi trovar il falsetto, o per isfuggire la fatica di cercarlo.
Un diligente Istruttore sapendo, che un Soprano senza falsetto bisogna, che
canti fra l’angustie di poche corde non solamente proccura
d’acquistarglielo, ma non lascia modo intentato acciò lo unisca alla voce di
petto in forma, che non si distingua l’uno dall’altra, che se l’unione non è
perfetta, la voce sarà di più registri, e conseguentemente perderà la sua
bellezza. La giurisdizione della voce naturale, o di petto termina
ordinariamente sul quarto spazio, o sulla quinta riga, ed ivi principia il
dominio del falsetto si nello ascendere alle note alte, che nel ritornare
alla voce naturale ove consiste la difficoltà dell’unione; Consideri dunque
il Maestro di qual peso sia la correzione di quel difetto, che porta seco la
rovina dello Scolaro se la trascura. Nelle femmine, che cantano il Soprano
sentesi qualche volta una voce tutta di petto, né Maschj però sarebbe rarità
se la conservassero passata, che abbiano l’età puerile. Chi fosse curioso di
scoprire il falsetto in chi lo sa nascondere badi, che chiunque se ne serve
esprime su gli acuti la vocale i con più vigore, e meno fatica dall’a.
La voce di testa è facile al moto, possiede le corde superiori più che le
inferiori, ha il trillo pronto, ma è soggetta a perdersi per non aver forza,
che la regga.
Faccia profferir distintamente allo Scolaro le vocali, acciò sieno intese
per quelle, che sono. Certi Cantori credono di formare il suono della prima,
e fanno sentir quello della seconda; se la colpa non è del Maestro, l’errore
è di què Vocalisti, che appena usciti dalle lezioni studiano di cantare
affettato per vergognarsi di aprire un poco più la bocca; Alcuni poi, forse
per ispalancarla troppo, confondono quelle due vocali con la quarta, e
allora non è possibile di capire, se abbiano detto Balla, o Bella: Sesso, o
Sasso: Mare o More.
Deve farlo cantar sempre in piedi, affinché la voce trovi libera tutta la
sua organizzazione.
Proccuri (mentre canta) ch’egli stia in positura nobile, acciò appaghi anche
con una decorosa presenza.
Lo corregga rigorosamente se fà smorfie di testa, di vita, e principalmente
di bocca, la quale deve comporsi in guisa (se il senso delle parole lo
permette) che inclini più alla dolcezza d’un sorriso, che ad una gravità
severa.
Eserciti lo Scolaro studiando sempre sul Tuono di Lombardia, e non su quello
di Roma non solo per fargli acquistare, e conservargli gli acuti, ma perché
non sia incomodato mai dagli Strumenti alti, essendo lo stento di chi non
può ascendere egualmente penoso, e a chi canta, e a chi sente. Il Maestro se
ne sovvenga, poiché crescendo l’età la voce declina, e in progresso di
tempo, o canterà il Contralto, o pretendendo per vanità insulsa il nome di
Soprano gli converrà di raccomandarsi ad ogni Compositore, affinché le note
per lui non passino il quarto spazio, né vi si fermino. Se tutti quegli, che
insegnano i principj sapessero prevalersi di questa regola, e far unire il
falsetto alla voce di petto dè loro Allievi, non vi sarebbe in oggi tanta
scarsezza di Soprani.
Gli faccia imparare di sostener le note senza, che la voce titubi, o
vacilli, e se l’insegnamento comincia da quelle di due battute l’una, il
profitto sarà maggiore, altamente dal genio, che hanno i Principianti di
muoverla, e dalla fatica di fermarla si assuefarà anch’esso a non poterla
più fissare, e avrà indebitamente il difetto di svolazzar sempre all’uso di
chi canta di pessimo gusto.
Coll’istesse lezioni gl’insegni l’arte di metter la voce, che consiste nel
lasciarla uscir dolcemente dal minor piano, affinché vada a poco a poco al
più gran forte, e che poscia ritorni col medesimo artificio dal forte al
piano. Una bella messa di voce in bocca d’un Professore, che ne sia avaro, e
non se ne serva, che su le vocali aperte non manca mai di fare un’ottimo
effetto. Pochissimi sono adesso què Cantanti, che la stimino degna del loro
gusto, o per amare l’instabilità della voce, o per allontanarsi dall’odiato
antico. Gli è però un torto manifesto, che fanno al rosignolo, che ne fu
l’inventore, da cui l’umano ingegno non può vocalmente imitar altro, quando
frà què canori Augelletti non se ne udisse qualcheduno, che cantasse alla
Moda.
Non si stanchi il Maestro di far solfeggiare lo Scolaro finché vi conosca il
bisogno, e se mai lo facesse vocalizzar prima del tempo non sa istruire.
Dopo deve introdurlo allo studio di vocalizzare su le tre vocali aperte,
massimamente sulla prima, ma non sempre sulla medesima, come si fa oggi,
acciocché da questo frequente esercizio non confonda l’una coll’altra, e
possa accostarsi più facilmente all’uso delle parole.
Ricavato, che abbia lo Scolaro da quella applicazione qualche rimarcabile
progresso allora chi istruisce potrà fargli conoscere i primi ornamenti
dell’Arte, che sono le Appoggiature (di cui parlerò in appresso) e
vocalizzar con esse.
Susseguentemente gl’insegni il modo di scivolar vocalizzando, e di
strascinar soavemente la voce dall’acuto al grave, che quantunque sieno
ammaestramenti necessari per cantar bene, e che dal semplice solfeggio non
sia possibile di poterli apprendere, con tutto ciò dà Maestri inesperti si
trascurano.
Se poi gli facesse cantar le parole prima ch’egli abbia un franco possesso
di solfeggiare, e di vocalizzar appoggiato lo rovina.
Dell’Appoggiatura
Fra tutti gli abbellimenti del Canto non v' è istruzione più
facile per il Maestro ad insegnarsi, nè meno difficile per lo Scolaro ad
impararsi. che quella della Appoggiatura; questa oltre alla propria sua
vaghezza ha degnamente ottenuto dall' Arte l’unico privilegio di farsi udir
sovente e di non istufar mai, purchè non esca da que’ limiti, che dal buon
gusto de’ Professori gli sono stati prescritti.
Da che fu inventata l’Appoggiatura per adornarne la Professione non si è
penetrata sin ora la cagione per cui non abbia tutti liberi i passi. Dopo di
averla cercata in vano da’ Cantori primarj, ho considerato, che la Musica
Scienza deve aver le sue regole e che bisogna far tutto quello, che si può
per iscoprirle. Non so, nè posso lusingarmi d’esserci arrivato, ma quando
ciò non fosse, gl’intelligenti almen vedranno, che mi ci sono avvicinato.
Trattandosi però d'una materia che totalmente è prodotta dalle mie
Osservazioni, errando dovrei sperare più compatimento in questo Capitolo,
che altrove.
Dalla Pratica comprendo, che da un C sol fa ut all'altro per B quadro un
Vocalista può ascendere, e discender di grado coll' Appoggiatura passando
senza verun’ ostacolo per tutti que’ cinque Tuoni, e due Semituoni che
compongono l’ottava.
Che da ogni Diesis accidentale. che possa trovarsi in essa si può salir di
grado di mezza voce alle note vicine colI' Appoggiatura. e ritornarvi colla
medesima.
Che da ogni nota che abbia il B quadro si può ascendere per semituoni a
tutte quelle, che hanno il B molle colI' Appoggiatura.
Sento vice versa, che dal F fa ut, del G sol re ut, dall' A la mi re, dal C
sol fa ut, e dal D la sol re non si
può salir di grado coll'Appoggiatura per mezze voci, allorchè qualcheduno di
que’ cinque Tuoni avesse il Diesis alla sua nota.
Che non si può passare coll’Appoggiatura di grado dalle terze Minori del
Basso alle maggiori, nè da queste a quelle.
Che due Appoggiature consecutive non possono andar di grado per Semituoni da
un Tuono all' altro.
Che da tutte le note col B molle non si può ascendere per mezze voci coll’Appoggiatura.
E che finalmente dove l’Appoggiatura non può salire, nè men può scendere.
Di tutti questi insegnamenti la Pratica ne direbbe le ragioni se le sapesse.
Vediamo se potessero penetrarsi da chi è obligato di renderne conto.
La Teorica insegna, che la suddetta Ottava essendo composta di dodici
Semituoni ineguali bisogna distinguere i maggiori da i minori, e invia chi
studia a consultare i Tetracordi. Gli Autori più cospicui, che ne trattano
non son tutti d'una opinione, perchè trovasi chi sostiene, che fra il C sol
fa ut, e il D la sol re, come fra 'l F fa ut, e il G sol re ut i loro
Semituoni sieno eguali, e in tanto si languisce nel dubbio.
L' Udito però essendo Arbitro, e supremo Maestro della Professione (se ben'
intendo i suoi precetti) par che mi dica, che l’Appoggiatura discerne con si
fino giudizio la qualità de’ Semituoni, che basta osservare dove ella volga
per suo divertimento il passo per conoscere i maggiori. Se così è, andando
con tanto piacere v. g. dal Mi al Fa si deve credere, che quel semituono sia
maggiore, nè può negarsi. Ma se ha quel transito libero di mezza voce
ascendendo, da che procede, che dall’istesso Fa non può salire al Diesis
vicino, che pur il passo è di un Semituono? Egli è minore risponde l'Udito;
Dunque suppongo di poter conchiudere, che la cagione, che toglie
all'Appoggiatura una gran parte della libertà deriva, ch' ella non può
passar di grado da un Semituono maggiore ad un minore, nè da questo a
quello; Rimettendomi sempre però al giudizio di chi intende.
L' Appoggiatura può andare ancora da una nota distante all’altra, purchè il
salto non sia d'inganno, poichè in quel caso chi non l'impronta di posta non
sa cantare.
Giacchè non è possibile (come si disse) che un Cantante salga di grado coll’Appoggiatura
dal Semituono maggiore ad un minore, il buon gusto gl’insegna di ascendere
un Tuono per discendervi poscia coll’Appoggiatura, ovvero gli suggerisce di
passarvi senza la medesima con una messa di voce crescente.
Istrutto, che ne sia lo Scolaro, le Appoggiature gli diventeranno dal
continuo esercizio così famigliari, che uscito appena dalle lezioni si
riderà di que’ Compositori, che le marcano, o per esser creduti Moderni, o
per dar ad intendere, che sanno cantar meglio de' Vocalisti; Se hanno questo
bellissimo talento di più, perchè non iscrivono anche i Passi, che sono più
difficili, e molto più essenziali, che le Appoggiature? Se poi le segnano
per non perdere il glorioso nome di Virtuosi alla Moda, dovrebbono almeno
avvedersi, che quel carattere costa poca fatica, e meno studio. Povera
Italia! Ma mi si dica di grazia! Non sanno forse i Cantori d’oggi dì dove
vadano fatte le Appoggiature se non gli si mostrano a dito? A mio tempo le
indicava l'intelligenza. O eterno biasimo di chi primo introdusse queste
puerilità forastiere nella nostra Nazione, che ha il vanto d’insegnar
all’altre la maggior parte dell’Arti più belle, particolarmente il Canto! O
gran debolezza di chi ne siegue l’esempio! O ingiurioso insulto a voi
Cantanti moderni, che soffrite documenti da fanciulli. Gli Oltramontani
meritano d’esser imitati, e stimati ma in quelle cose però dove sono
eccellenti.
Del Trillo
Due fortissimi ostacoli s'incontrano a formar perfettamente
il Trillo. Il primo imbarazza il Maestro, perchè non si è trovata fin ora
regola infallibile da cui s'impari di farlo; E il secondo confonde lo
Scolaro, poichè la natura ingrata a molti non lo concede, che a pochi.
L'impazienza di chi insegna si unisce colla disperazione di chi studia,
acciocchè quello abbandoni la pena, e questi l’applicazione. Doppio allora è
il mancamento di chi istruisce, mentre non adempie al suo dovere, e lascia
lo Scolaro nell' ignoranza. Bisogna cozzare colle difficultà per superarle
colla pazienza.
Se ‘l Trillo sia necessario a chi canta chieggasi a i primi Professori, che
più degli altri sanno quante, e quali sieno le obbligazioni, che
precisamente gli devono, allorchè sorpresi da una improvvisa astrazione, o
dalla sterilità d' una mente addormentata non potrebbono celare al pubblico
l'importuna povertà del loro artificio, se ‘l Trillo mallevadore non li
soccorresse col suo pronto ripiego.
Chi ha un bellissimo Trillo, ancorchè fosse scarso d’ogn’altro ornamento,
gode sempre il vantaggio di condursi senza disgusto alle Cadenze, ove per lo
più è essenzialissimo; E chi n’è privo (o non l' abbia che difettoso) non
sarà mai gran Cantante benchè sapesse molto.
Essendo dunque il Trillo di tanta conseguenza a' Cantori proccuri il Maestro
per mezzo d' esempli vocali, speculativi, e strumentali, che lo Scolaro
giunga ad acquistarlo eguale, battuto, granito, facile, e moderatamente
veloce, che sono le qualità sue più belle.
Supposto, che chi insegna non sapesse quanti sieno i Trilli dirò, che l'
arte ingegnosa de' Professori ha trovato il modo di prevalersene in tante
forme diverse, dalle quali hanno i loro nomi, che francamente può dirsi, che
sieno diventati otto.
Il primo è il Trillo maggiore, che riconosce il suo essere dal moto violento
di due Tuoni vicini, uno de' quali merita il nome di principale, perchè
occupa con più padronanza il sito della nota, che lo chiede; L' altro poi
ancorchè col suo movimento possegga il luogo della voce superiore,
nulladimeno non vi fà altra figura, che di ausiliario. Da questo Trillo
nascono tutti gli altri.
Il secondo è il Trillo minore composto d'un Tuono, e d'un Semituono
maggiore, che sieno prossimi, e le composizioni poi accennano dove, o l’uno,
o l’ altro convenga. Nelle cadenze però inferiori, o di sotto il primo resta
perpetuamente escluso. Se non è facile di scoprir ne’ Vocalisti la
differenza di questi due Trilli, quantunque sia di mezza voce, se ne
attribuisca la cagione alla poca forza che ha l' ausiliario per farsi
sentire, oltrechè essendo questo Trillo più difficile a battersi dell'
altro, non tutti sanno formarlo come si deve, e la trascuraggine passa in
uso; Chi non la scorgesse negli Strumenti ne incolpi l’udito.
Il terzo è il Mezzotrillo, che dal suo nome si fa conoscere. Chi possiede il
primo, e il secondo facilmente lo impara coll’arte di strignerlo un poco
più, lasciandolo poco dopo, che si fa sentire, e aggiugnendovi un po’ di
brillante, per cui nell’Arie allegre piace più, che nelle patetiche.
Il quarto è il Trillo cresciuto, che insegnasi col far ascendere
impercettibilmente la voce trillando di Coma in Coma senza che si conosca
l’aumento.
Il quinto è il Trillo calato, che consiste nel far discendere
insensibilmente la voce a Coma per Coma col Trillo in forma che non si
distingua il declivo. Questi due Trilli da che s'introdusse il vero buon
gusto non sono più in voga, anzi bisogna scordarsi di saperli fare. Chi ha
l’orecchio dilicato egualmente abborre le seccaggini antiche, e gli abusi
moderni.
Il sesto è il Trillo lento, che porta anch’esso le sue qualità nel nome. Chi
non lo studiasse crederei, che non dovesse perdere il concetto di buon
Cantore, poichè s’egli è solo è un Tremolo affettato, se poi si unisce a
poco a poco col primo, o col secondo Trillo, parmi che non possa piacere al
più al più, che la prima volta.
Il settimo è il Trillo raddoppiato, che imparasi col frapporre poche note in
mezzo del Trillo maggiore, o minore, le quali bastino d’un solo a farne tre.
Questo è particolare quando quelle poche voci, che intermittentemente lo
dividono sono di corde differenti intonate con possesso; Allor poi ch’egli è
formato dolcemente su gl’acuti da un’ottima voce, che colle più rare
prerogative lo possegga, e noi faccia sentir sovente, non può dispiacere nè
meno all invidia, se non è maligna.
L’ottavo è il Trillo mordente, che ha il dono di servire di grato ornamento
al Canto, e la natura più che l’arte lo insegna. Ei nasce con più velocità
degli altri, ma nato appena deve morire. Ha un gran vantaggio quel Cantante,
che sa di tempo in tempo mischiano ne' Passaggi (come dirò nel loro
Capitolo) e chi intende la Professione di rado se ne priva immediatamente
dopo l’Appoggiatura. Per isprezzarlo, l'ignoranza sola non basta.
Tutti questi Trilli, disaminata che sia la loro sostanza, si ristringono in
pochi, cioè in quelli, che sono i più necessarj, e quelli più degli altri
chieggono dal Maestro maggiore applicazione. So, e pur troppo lo sento, che
si canta senza Trillo, ma non è da imitarsi l’esempio di chi non istudia
abbastanza.
Il Trillo per sua bellezza vuol esser preparato, però non sempre esige la
sua preparazione, poichè alle volte non gliela permetterebbe nè il Tempo, nè
il gusto; La chiede bensì quasi in tutte le Cadenze terminate, e in diversi
altri siti congrui ora sul Tuono, ora sul Semituono più alto della sua nota
secondo la qualità del componimento.
Molti sono i difetti del Trillo, che bisogna sfuggire. Il Trillo lungo già
trionfava mal a proposito, come fanno in oggi i Passaggi; Ma raffinata che
fu l’Arte, si lasciò a Trombetti, o a chi volea esporsi al rischio di
scoppiare per un’ Eviva dal popolaccio: Quel Trillo, che si fa sentir
sovente, ancorchè fosse bellissimo, non piace: Quel che si batte con
disuguaglianza di moto dispiace; Il Caprino fa ridere, perchè nasce in bocca
come il riso, e l’ottimo nelle fauci: Quel che è prodotto da due voci in
terza disgust; Il lento annoja; E il non intonato spaventa.
La necessità del Trillo obbliga il Maestro a tener lo Scolaro applicato ad
esercitarlo su tutte le vocali, in tutte le voci, che possiede, e non solo
sulle note bianche, ma sulle Crome ancora, ove col progresso del tempo
s'impara il Mezzotrillo, il Mordente, e la prontezza di formarlo eziandio in
mezzo alla velocità de' Passaggi.
Dopo un franco possesso del Trillo osservi l’Istruttore se lo Scolaro abbia
l’istessa facilità nel lasciarlo, perchè non sarebbe il primo, che avesse il
difetto di non poter distaccano a suo beneplacito.
Per insegnar poi dove il Trillo convenga fuor di Cadenza, e dove proibir si
debba è lezione riservata alla pratica, al gusto, ed alla intelligenza.
Del Passaggio
Benché il Passaggio non abbia in se forza, che basti al
produrre soavità, che s'interna, né sia considerato per lo più, che per
ammirar in un Cantante la felicità d'una voce flessibile, nondimeno è di
somma urgenza, che il Maestro ne istruisca lo Scolari, acciò con facile
velocità, e giusta intonazione lo possegga, che quando in sito proprio è ben
eseguito esige il suo applauso, e fa il Cantore universale, cioè capace di
cantare in ogni stile.
Chi avvezza la voce di chi studia alla pigrizia di farsi strascinare non
gl'insegna..., che la più piccola parte della sua professione, e lo riduce
alla impossibilità d'imparar la maggiore; Chiunque non ha la voce agile ne'
Componimenti, che corrono in tempo stretto, e né meno negli andanti tedia a
morte colla più melensa flemma, e tanto va tardando finalmente col tempo,
che tutto quel che canta è quasi sempre fuor di Tuono.
Il Passaggio (secondo la opinione universale è di due sorte, Battuto, e
Scivolato; Parendo, che dalla sua lentezza lo strascino meriti più tosto
nome di Passo, che di Passaggio.
Nella Istruzione del primo il Maestro deve insegnar allo scolaro quel moto
leggierissimo della voce in cui le note, che lo compongono sieno tutte
articolate con egual proporzione, e moderato distaccamento, affinché il
passaggio non sia, né troppo attaccato, né battuto soverchio.
Il secondo formasi in maniera, che la sua prima nota conduca tutte quelle,
che gli vengono appresso così strettamente unite di grado, e con tanta
uguaglianza di movimento, che cantando s'imiti un certo sdrucciolo liscio,
che da' Professori è detto Scivolo, i di cui effetti sono veramente
gustosissimi, allorché una Vocalista se ne serve di rado.
Il Passaggio battuto per essere più frequentato degli altri, chiede anche
maggior esercizio.
La giurisdizione dello Scivolo è assai limitata nel Canto, Egli talmente a
poche corde ascendenti, e discendenti di gradi si ristringe, che se non vuol
dispiacere non può passar la quarta. All'orecchio parmi più grato però
quando scende, che quando cammina per moto contrario.
Lo strascino poi consiste in diverse voci dolcemente strascinate dall'arte
migliore, col forte, e col piano, della di cui bellezza ne parlerò altrove.
Se'l Maestro anderà stringendo insensibilmente il tempo allo Scolaro
cantando i passaggi vedrà, che non v'è mezzo più efficace per scioglierli, e
facilitargli la voce alla velocità del moto; Avvertendo però, che quella
impercettibile alterazione non si converta col tempo in abito vizioso.
Gl'insegni di battere i passaggi, coll'istessa agilità nell'ascender di
grado, che nel discendere, perché se l'ammaestramento è da Principiante,
l'esecuzione non è comune ad ogni Cantore.
Dopo i Passaggi di grado gli faccia imparare colla maggior franchezza tutti
quelli, che sono rotti da ogni salto più difficile, imperciocchè intonati,
che sieno con prontezza, e possesso meritano con giustizia d'esser
distinatemente considerati. Lo studio di questo insegnamento chiede più
tempo, e fatica d'ogn'altro, non solo per le sue stravaganti difficoltà, che
per le conseguenze premurose, che seco porta; E in fatti, non resta più
sorpreso un Cantante, allorché le note più scabrose gli sono famigliari.
Non trascuri di mischiar qualche volta ne' Passaggi il piano col forte, lo
scivolo colle note battute, e di frapporvi il Mezzotrillo spezialmente su le
note puntate, purchè non sieno troppo vicine, acciò conosca ogni
abbellimento dell'Arte.
Miglior di qualsivoglia lezione ne' Passaggi sarebbe quella da cui s'impara
di unirvi di quando in quando il Mordente, se chi studia lo avesse dalla
natura, o dall'artificio, e che il Maestro con intelligenza di Tempo sapesse
indicargli il sito in cui sono meravigliosi gli effetti; Ma non essendo
documento proprio per chi insegna le prime regole, e molto meno per chi
comincia ad apprenderle, sarebbe stato meglio di posporlo (come forse avrei
fatto) se non sapessi, che ci sono de' Scolari di così fina penetrazione,
che in pochi anni diventano bravissimi Vocalisti, e che non mancano
Istruttori dotati d'ogni insegnamento adeguato all'acuto ingegno de' loro
Discepoli; Oltre ciò non mi è paruto convenevole nel Capitolo de' Passaggi
(ne' quali fa più bella pompa d'ogn'altro ornamento il Mordente) di non
farne parola.
Non soffra se lo Scolaro canta i Passaggi con disuguaglianza di tempo, e di
moto, e lo corregga se li batte colla lingua, col mento, o con altre smorfie
di testa, e di vista.
Ogni Mestro sa, che sulla terza, e quinta vocale i Passaggi sono di pessimo
gusto, ma non tutti sanno, che dalle buone Scuole non si permettono tampoco
sulla seconda, e quarta, allorché queste due vocali vanno pronunziate
strette, o chiuse.
Molti difetti scorgonsi ne' Passaggi, che bisogna conoscere per intopparvi;
Oltre a quelli di naso, di gola, e d'altri già noti, sono anche dispiacevoli
di quelli di chi non li batte, né li scivola, perché allora un Vocalista non
canta, ma urla. Sono assai più ridicoli però quando un Professore li batte
soverchio, e con tal rinforzo di voce, che pensando v.g. di formare il
Passaggio sull'a fa sentir un certo effetto, come se dicesse, ga, ga, ga; e
l'istesso sull'altre vocali. Il peggior poi d'ogni difetto è di chi non gl'intuona.
Sappia l'Istruttore, che se una buona voce agiatamente sparsa si fa
migliore, agitata poi dal moto velocissimo de' Passaggi in cui non ha tempo
d'organizzarsi si converte in mediocre, e talvolta per negligenza del
Maestro, e con pregiudicio dello Scolaro diventa pessima.
I Passaggi, e i Trilli nelle Siciliane sono errori; E lo Scivolo, e lo
Strascino delizie.
Tutta la bellezza del Passaggio consiste nell'esser perfettamente intonato,
battuto, granito, eguale, rotto, e veloce.
I Passaggi corrono la medesima forte, che i Trilli. Ambi egualmente
dilettano nel loro nicchio; ma se sono riservati alle occasioni opportune,
la troppo quantità genera noja, e la noja disprezzo, & odio at fine.
Dopo, che lo Scolaro si sarà impadronito francamente del Trillo, e del
Passaggio il Maestro gli dovrà far leggere, e pronunziar le parole senza
quegli erroracci ridicolo d'Ortografia in cui molti tolgono a qualche
vocabolo le due doppie consonanti per regalarne un altro, che le ha
semplici.
Corretta la pronunzia procuri, che proferisca le medesime parole in maniera,
che senza affettazione alcuna, sieno così distintamente intese, che non se
ne perda sillaba, poiché se non si sentono, chi canta priva gli ascoltanti
d'una gran parte di quel diletto, che il Canto riceve dalla loro forza; Se
non si sentono, quel Cantore esclude la verità dell'artificio; E se
finalmente non si sentono non si distingue la voce umana da quella d'un
Cornetto, o d'un Haute-bois. Questo difetto, benché massimo in oggi è poco
men che comune con notabile pregiudicio de' Professori, e della Professione;
E pur non dovrebbono ignorare, che le parole son quelle, che li fanno
prevalere a Sonatori, quando sieno d'eguale intendimento. Il Maestro moderno
sappia servirsi dell'avviso, perché la correzione non è stata mai tanto
necessaria come adesso.
Gli faciliti quella franchezza, che si ricerca in sillibar sotto le note,
acciò non intoppi, né vada tentone.
Gli proibisca di prender fiato in mezzo d'una parola, imperciocchè il
dividerla in due respiri è un errore, che la natura non soffre, e si deve
imitarla per non esserne burlato. In un movimento interrotti, o in un
Passaggio lungo non v'è questo rigore, allorché non si possa cantare, o
l'uno, o l'altro in un sol fiato. Anticamente lezione simile non era
propria, che per chi studiava i primi principi, ora l'abuso è uscito dalle
Scuole moderne, e fatto adulto si domestica troppo con chi pretende
distinzione. Il Maestro può correggere lo Scolaro con quegl'insegnamenti da
cui s'impara di far un buon uso del respiro, di provvedersene sempre più del
bisogno, e di sfuggir gl'impegni se'l petto non resiste.
In ogni composizione gli faccia poi conoscere il sito di respirare, e di
respirar senza fatica, poiché ci sono Cantanti, che con affanno di chi sente
penano come gli asmatici ripigliando stentatamente fiato ad ogni momento, o
arrivando all'ultime note sfiatati morti.
Cerchi l'Istruttore qualche emulazione allo Scolaro d'infelice ritenitiva,
che lo inciti a studiar per impegno (che qualche volta ha più forza del
genio) per se in vece d'una lezione ne sente due, e che la competenza non lo
avvilisca, imparerà forse prima quella del Compagno, e poi la sua.
Non gli permetta mai cantando di tenere la carta di Musica sul volto, acciò
non impedisca il suono alla sua voce, né lo renda timido.
Assuefaccia lo Scolaro a cantar sovente in presenza di persone riguardevoli,
e per nascita, e per intelligenza di Professione, affinché perdendo a poco a
poco ogni timore diventi ardito, ma non arrogante. L'ardire è il primogenito
della fortuna, e in un Cantante diventa merito. All'incontro chi teme è l'infelicissimo;
Oppressa dalla difficoltà del respiro gli trema sempre la voce; E'
necessitato ad ogni nota di perder il tempo per inghiottire; Pena per non
condor seco la sua abilità di Casa; Disgusta chi lo sente: E rovina talmente
le composizioni, che non si conoscono più per quelle che sono; Un Vocalista
timido è sventurato come un Prodigo, che sia miserabilmente povero.
Non trascuri il Maestro di fargli comprendere quanto sia grande l'errore di
chi trilla, passaggia, o ripiglia il fiato sulle note sincopate, o legate; e
quanto sia grato l'effetto di chi vi distende la voce, giacchè i
componimenti in luogo di perdere acquistano maggior bellezza.
Lo istruisca del forte, e del piano con patto però, ch'egli eserciti più il
primo, che il secondo, essendo più facile di far cantar piano chi canta
forte, che di far cantar forte, chi canta piano. La esperienza insegna, che
non bisogna fidarsi del piano, poiché alletta per ingannare, e chi vuol
perder la voce lo frequenti. A questo proposito c'è opinione fra' Musici,
che vi sia un piano artificioso, che si faccia sentir come il forte, ma è
opinione, cioè Madre di tutti gli errori; Il piano di chi canta bene non si
sente per arte, ma dal profondo silenzio di chi attentamente l'ascolta; Per
prova di ciò, se ogni più mediocre Vocalista sta in Teatro un quarto di
minuto tacendo quando deve cantare, allora anche l'Udienza curiosa di sapere
il motivo di quella pausa inaspettata ammutolirà in modo, che s'egli in
quello istante profferirà una parola sotto voce sarà intesa anche da i più
lontani.
Si ricordi il Maestro, che chi non canta a rigor di tempo non può meritar
mai la stima degli Uomini intelligenti, sicchè insegnando avverta, che non
vi sia alcuna alterazione, o diminuzione se pretende di ben istruire, e di
fare un'ottimo Scolaro.
Se in certe Scuole i libracci a Cappella, e i Madrigali a tavolino fossero
sepolti nella polvere glie la scuota chi è buon Istruttore, perché sono i
mezzi più efficaci per francar lo Scolaro. Se non ti cantasse quasi sempre a
mente, come si fa in oggi, non so se certi Professori potessero sostenere il
nome di Cantanti ottimi.
Lo incoraggisca allorché fa profitto: Lo mortifichi, senza batterlo per la
sua pertinace durezza: Sia più rigoroso con la negligenza: Né termini mai
inutilmente lezione alcuna.
Un'ora di applicazione al giorno non basta né meno a chi ha pronte tutte le
potenze dell'anima; Consideri dunque il Maestro quanto tempo debba impiegare
per chi d'eguale prontezza non le possiede, e quanto ne chiegga l'obbligo di
adattarsi alla capacità di chi studia. In un Mercenario, che insegna non può
sperarsi questa necessaria convenienza. Asepattato dagli altri Scolari,
annojato dalla fatica, sollecitato dal bisogno, pensa, che il Mese è lungo,
guarda l'orologgio, e parte, Se istruisce per poco, vada a buon viaggio.
Del recitativo
Il Recitativo è di tre sorte, e in tre maniere diverse
il Maestro lo deve insegnare allo Scolaro.
Il primo essendo Ecclesiastico è di ragione, che si canti adattato alla
Santità del luogo, che non ammette scherzi vaghi di stile indecente, ma
richiede qualche messa di voce, molte Appoggiature, & una continua nobiltà
sostenuta. L' arte poi colla quale esprimersi non s' impara, che dallo
studio mellifluo di chi pensa di parlare con Dio.
Il secondo è Teatrale, che per esser inseparabilmente accompagnato dall'
azione del Cantante obbliga il Maestro d' istruir lo Scolaro con quel decoro
col quale parlano i Principi, e quegli che a Principi fanno parlare.
L' ultimo a giudizio di chi piu intende, si accosta più degli altri al
cuore, e chiamasi Recitativo da Camera. Questo esige quasi sempre un
particolare artificio a cagion delle parole, le quali essendo dirette (poco
men che tutte) allo sfogo delle passioni più violente dell' animo, impegnano
l' Istruttore di far imparare al suo Allievo quel vivo interesse, che arriva
a far credere, che un Cantore le sente. Uscito poi che sia lo Scolaro dagli
ammaestramenti, sarà pur troppo facile, che non abbia bisogno di questa
lezione. Il diletto immenso, che i Professori ne traggono deriva dalla
cognizione che hanno di quell' arte, che senta l' ajuto de' soliti ornamenti
produce da se tutto il piacere; E vaglia' l vero, dove parla la passione i
Trilli, e i Passaggi devon tacere, lasciando che la sola forza d' una bella
espressiva persuada col Canto.
Il Recitativo Ecclesiastico concede a Vocalisti più libertà degli altri due,
e gli esime dal rigore del Tempo, massimamente nelle Cadenze finali, purché
se ne prevalgono da Cantanti, e non da Violinisti.
Il Teatrale toglie ogni arbitrio all' artificio per non offendere ne' suoi
diritti la narrativa naturale, quando però non fosse composto in qualche
Solliloquio all' uso di Camera.
Il terzo rifiuta una gran parte dell' autorità del primo, e si contenta d'
averne più del secondo.
Sono senza numero i difetti, e gli abusi insoffribili, che ne' Recitativi si
fanno sentire, e non conoscere da chi li commette.
Proccurerò di notarne diversi Teatrali, acciò il Maestro possa emendarli.
V' è chi canta il Recitativo della Scena come quello della Chiesa, o della
Camera; V' è una perpetua Cantilena, che uccide; V' è chi per troppo
interessarsi abbaja; V' è chi lo dice in segreto, e chi confuso; V' è chi
sforza l' ultime Sillabe, e chi le tace; Chi lo canta svogliato, e chi
affranto; Chi non l' intende, e chi nol fà intendere; Chi lo mendica, e chi
lo sprezza. Chi lo dice melenso, e chi lo divora: Chi lo canta frà denti, e
chi affettato; Chi non lo pronunzia, e chi non l' esprime; Chi lo ride, e
chi lo piange; Chi lo parla, e chi lo fischia; V' è chi strida, chi urla, e
chi stuona; E cogli errori di chi s' allontana dal naturale, v' è quel
massimo di non pensare all' obbligo della correzione.
Con troppa nociva negligenza trascurano i moderni Maestri l' istruzione di
tutti i Recitativi a' loro Scolari, poiché in oggi lo studio dell'
espressiva, o non è considerato come necessario, o è vilipeso come antico. E
pur dovrebbono giornalmente avvedersi, che oltre all' obbligo indispensabile
di saperli cantare, son quelli che insegnano di recitare; Se nol credessero,
basta che osservino senza lusinghe dell' amor proprio, se fra loro Allievi
vi sia alcuno Attore, che meriti gli encomj di Cortona nell' amoroso, del
Sig. Baron Bellerini nel fiero, e d' altri famosi nell' agire, che
perfettamente operano, che è l' unico motivo per cui in quete mie
Osservazioni ho costantemente determinato di non nominarne alcuno in
qualsivoglia perfetto grado della Professione, e di stimarli quanto
meritano, e quanto devo.
Chi non sa insegnare il Recitativo probabilmente non intende le parole, e
chi ne capisce il senso, come può mai istruir lo Scolaro di quella
espressione, che è l' anima del Canto, e senza la quale non è possibiie di
cantar bene? Signori Maestri deboli, che dirigete i Principianti senza
riflettere all' ultimo esterminio in cui mettete la Musica coll'
indebolirgli i principali fondamenti, se non sapete che i Recitativi,
particolarmente vulgari, vogliono quegl' insegnamenti, che alla forza delle
parole convengonsi, vi consiglierei di rnunziare il nome, e l' uffizio di
Maestri a chi può sostenere, e l' uno, e l' altro in vantaggio de'
Professori, e della Professione; Altramente i vostri Scolari sacrificati
all' ignoranza non potendo discernere l' allegro dal patetico, né il
concitato dal tenero non è meraviglia se li vedete stupidi in Iscena, ed
insensati in Camera. A dirla come l' intendo. non è perdonabile la vostra.
né la loro colpa, orché non è più soffribile il tormento di sentire in
Teatro i Recitativi cantati sul fusto Corale de' Padri Cappuccini.
La cagione però del non esprimersi più il Recitativo all' uso de' nominati
Antichi non sempre procede dalla insufficienza de' Maestri, né dalla
trascuraggine dei cantanti, ma dalla poca intelligenza di certi Compositori
moderni, i quali (a riserva de' meritevoli) li concepiscono così privi di
naturale, e di gusto, che non si possono né insegnare, né agire, né cantare.
Per giustificar chi insegna, e chi canta la ragione se ne piglierà l'
incombenza; Per biasimar chi compone, la medesima mi vieta d' entrare in una
materia tropp' alta dal mio basso intendimento, e saggiamente mi dice di
rimirar con miglior vista quella mia poca, e superficial tintura che appena
basta per un cantore, o a scrier nota contra nota. se poi considero
all'impresa in cui mi posi in queste Osservazioni di procurar diversi
vantaggi a Vocalisti, e ch'io non parli della composizione a quali è
necessaria due mancamenti commetto, e irresoluta mi lascierebbela
perplessità in un intrigato labirinto se non me ne porgesse il filo l'
opportuno riflesso col suggerirmi, che i Recitativi han comercio col
Contrappunto. Se così è, molti Recitativi Teatrali sarebbon ottimi se non
fossero confusi gli uni cogli altri; Se si potessero imparar a mente; Se non
mancassero d' intelligenzza di parole, e di Musica; Se non ispaventassero
chi canta, e chi sente co' salti mortali dal bianco al nero; Se non
offendessero l'orecchio, e le regole con pessime modulazioni; Se non
tormentassero il buon gusto con una perpetua somiglianza; Se con atroci
voltate di corde non traffiggessero l' anima; E se finalmente i periodi non
fossero storpiati da chi non conosce né punti, né virgole? Io mi stupisco,
che questi tali non cerchino d' imitare per loro profitto i Recitativi di
quegli Autori, che ci rappresentano in essi una viva immagine della verotà
coll' espressiva di certe note, che cantano da loro stesse, come se
parlassero. Ma a che serve ch'io mi affanni! Pretenderò io forse, che queste
ragioni con tutta la loro evidenza sieno buonem quando nella Musica la
ragione istessa non è più alla Moda? Gran dominio ha l' Usanza! Costei
assolvendo con ingiusta potenza i suoi parziali da i veri precetti per non
obbligarli che all' unico studio de' Ritornelli non vuole, che impegnino
inutilmente il tempo prezioso nell' applicazione de' Recitativi, che secondo
i suoi dogmi si devono lasciar cadere dalla penna, e non dalla mente. Se sia
negligenza, o ignoranza non sò; ma sò bensì, che i Cantanti non ci trovano
il loro conto.
Vi sarebbe ancora molto da dire sopra le composizioni de' Recitativi in
generale a cagione di quella tediosa cantilena, che ferisce l' udito con
mille Cadenze tronche in ogni Opera, che l' uso ha stabilite, benché sieno
senza gusto, e senz' arte. Per riformarle tutte, il rimedio sarebbe peggior
del male: L' introduzione d' ogni Cadenza finale sarebbe orrore. Se poi fra
questi due estremi fosse necessario il ripiego crederei, che fra cento
Cadenze tronche dieci brevemente terminate su punti fermi, che chiudono i
periodi non fossero male impiegate. Gl' intelligenti però non ne parlano, e
il loro silenzio mi condanna.
Ritorno al Maestro per risovenirgli solamente, che il suo obbligo è d'
insegnar la Musica, e se lo Scolaro prima di uscir dalle sue mani non canta
franco, il danno cade sull' innocente, e chi n' é reo non può risarcirlo.
Se dopo questi documenti l' Istruttore realmente conosce d' aver capacità
bastante per comunicare allo Scolaro cose di maggior rilievo e concernenti
al di lui progresso, dovrà immediatamente introdurlo allo studio dell' Arie
Ecclesiastiche, in cui bisogna lasciar da parte ogni vezzo Teatralre, e
femminile, e cantar da Uomo; Perciò lo provvederà di varj Motetti naturali,
nobilmente vaghi, misti d' allegro, e di patetico, adattati all' abilità
scoperta in lui. e proseguire con frequenti lezioni a farglieli imparar sì,
che con franchezza, e spirito li possegga. Nel medesimo tempo proccurerà,
che le parole sieno ben pronunziate, e meglio intese; Che i Recitativi sieno
espressi con forza, e sostenuti senza affettazione; Che le Arie non manchino
né di Tempo, né di qualche principio di gustoso artificio; E soprattutto,
che i finali de' Mottetti sieno eseguiti da' Passaggi distaccati, e
intonati, e veloci. Successivamente gl' insegnerà quel metodo, che al gusto
delle Cantate richiedesi, affinché coll' esercizio ei scopra la differenza,
che verte fra l' uno, e l' altro stile. Contento che sia il Maestro dello
Scolaro non s' immaginasse mai di farlo sentire in pubblico se prima non ode
il savio parere di quegli Uomini, che sanno più cantare, che adulare, poiché
non solo sceglieranno quelle composizioni più proprie a fargli onore, ma lo
correggeranno anche di que' difetti, e forse di quegli errori, che dall'
ommissione, o dall' ignoranza dell' Istruttore non erano stati emendati, o
conosciuti.
Se tutti quegli, che insegnano considerassero, che dalle nostre prime
comparse in faccia al Mondo dipende il perdere, o l' acquistar nome, e
coraggio, non esporrebbero così alla cieca i loro Allievi al pericoloso
azzardo di cadere al primo passo.
Se poi il Maestro non avesse altra cognizione di quella, che basta per le
scorse regole, allora per impegno di coscienza non può innoltrarsi, anzi
deve esortar lo Scolaro di passare per suo vantaggio a migliori Istruzioni.
Innanzi però ch' egli vi giunga non sarà forse del tutto inutile, ch' io
seco parli, e se l' età non gli permette di capirmi,. m' intenda chi ne ha
direzione, e cura né seguenti capitoli.
Osservazioni per chi
studia
Avanti d’entrare nella vasta e difficultosa applicazione del
Canto Figurato è necessario, che si consulti la propria vocazione senza di
cui ogni studio sarebbe gettato al vento, non essendo possibile di resistere
all’ostinato contrasto della medesima, quando con forza occulta ci porta
altrove; Dove poi impiega le sue lusinghe immediatamente persuade, e
risparmia al Principiante la metà della fatica.
Supposto dunque, che ansioso lo Scolaro inclini all’acquisto di sì bella
Professione, e sia già istrutto de’ passati affannosi principi, e di molt’altri
usciti dalla debolezza della mia memoria, dovrà ricorrere al possesso delle
virtù morali, e sacrificare il resto della sua attenzione allo studio di ben
cantare, acciò mediante l’uno, e l’altro progresso giunga alla felicità di
unire le qualità più nobili dell’animo alle doti più singolari dell'ingegno.
Se chi studia brama di cantare pensi che indispensabilmènte dalla sua voce
dipende, o la sua fortuna, o la sua disgrazia; sicchè per conservarsela deve
astenersi da ogni sorta di disordini, e da tutti i divertimenti violenti.
Sappia perfettamente leggere per non aver il rossore di mendicar le parole,
e per non incorrere in que’ spropositi, che derivano dalla più vergognosa
ignoranza. Oh quanti avrebbono bisogno d’imparar l’Alfabeto!
In caso, che il Maestro non sapesse correggere i difetti della pronunzia
proccuri di apprender la migliore, poichè la scusa di non esser nato in
Toscana non esime chi canta dall’errore d’ignorarla.
Con esatta diligenza cerchi ancora di emendarsi di tutti quegli altri, che
fossero stati dalla negligenza dell’Istruttore ommessi.
Studj insieme colla Musica almeno la Grammatica, acciò possa intendere
quelle parole che dovrà cantare in Chiesa, e per dar quella forza, che
all’espressione conviensi sì nell’una, che nell’altra lingua. Ardirei quasi
di credere, che diversi Professori non intendono il volgare non che il
latino.
Eserciti istancabilmente da se la voce alla velocità del moto per trovarla
ubbidiente in ogni occorenza, se pretende d' esserne più Padrone che
Schiavo, e di non avere il nome di Vocalista patetico.
Non tralasci di tempo in tempo di mettere, e di fermar la voce, affinchè sia
sempre disposta per servirsene in tutte due le forme.
Ripeta tante volte la sua lezione a Casa sinchè francamente la possegga,
poscia ne faccia memoria locale per risparmiare al Maestro il tedio di
replicarla, e a se la pena di doverla ristudiare.
Il Canto esige l’applicazione con tanto rigore, che a viva forza obbliga di
studiar colla mente, quando non si può colla voce.
Lo studio indefesso d’un giovanetto è sicuro di superar tutte le
opposizioni, che gli vanno incontro, ancorchè fossero difetti succhiati col
latte; Questa mia opinione è soggetta a forti obbiezioni, però la diffenderà
la sperienza, unita alla seguente condizione purchè sappia a tempo ben
correggersene, che se tarda l’emenda crescon cogli anni, e diventano tanto
più orribili quanto più s’invecchiano.
Senta più che può i Cantanti più celebri, e gli ottimi Sonatori ancora,
imperocchè dall' attenzione di ascoltarli se ne ricava più frutto, che da
qual si voglia insegnamento.
Cerchi poi di copiare, e gli uni, e gli altri per entrar insensibilmente nel
buon gusto collo studio altrui. Questo documento, benchè utilissimo a chi
studia, con tutto ciò pregiudica infinitamente un Cantore, e in qualche suo
luogo ne dirò la ragione.
Canti sovente le più gustose composizioni de’ migliori Autori, che sono
dolci incentivi per frequentarne l’uso, ed assuefanno l’orecchio a ciò, che
piace. Sappia chi studia, chè dalla suddetta imitazione, e dall’impulso de’
buoni componimenti il gusto col tempo diventa arte, e l’arte natura.
Impari d’accompagnarsi s’egli aspira a cantar bene. Invita con affetto così
violento il Gravecembalo allo studio, che ne vince la più pertinace
negligenza, e illumina sempre più l’intelletto; L’evidente profitto, che da
quell’amoroso strumento a Vocalisti ne risulta assolve gli esempli
dall’impegno di persuadere; Oltrechè spesse volte accade a chi non sa
sonare, che senza l’aiuto altrui non può farsi sentire, nè ubbidir talvolta
a Sovrani comandi con suo gran danno, e maggior confusione.
Sinchè un Cantante non piace a se stesso, certo è, che non piacerà mai agli
altri. Onde riflettasi che se i Professori d'intendimento più che mediocre
son privi di quel diletto per non aver imparato quanto basta, cosa dovrà mai
far lo Scolaro? Studiare, e poi studiare, e non compiacersi per poco.
Stò quasi per dire, che sia infallibilmente vana qualunque applicazione al
Canto se non è accompagnata da qualche poca cognizione di Contrappunto. Chi
sa comporre sa render conto di quello, che fa, e chi non ha l’istesso lume
opera allo scuro, ne può cantar molto tempo senza errare: I più rinomati
Antichi dagli effetti conoscevano il valore intrinseco di questo documento,
e un ottimo Scolaro deve imitarli senza che gli prema se la lezione sia, o
non sia alla moda; Che sebben in oggi odansi di quando in quando delle cose
mirabili concepite da un gustoso naturale sono tutte fatte a caso, e
raccomandate all’Udienza dall’azzardo; Le altre poi (a chi ben le considera)
se non sono pessime saranno indubitatamente cattive, perchè non potendo la
fortuna coprir sempre i difetti, non si accorderanno nè col Tempo, né col
Basso. Questa intelligenza ancorchè necessaria non è però bastante a farmi
consigliar lo Scolaro ad immergersene in una profonda occupazione, essendo
certo, che gl’insegnerei il modo più facile di perder la voce; Lo esorto
bensì quanto posso ad impararne solamente le regole principali per non
cantare alla cieca.
Studiare assai, e conservar la voce nella sua bellezza son due cose poco men
che incompatibili; V’è tra loro una tal quale amicizia, che quantunque senza
interesse, e senza invidia difficilmente dura; Se si riflette però, che la
perfezione nella voce è un dono gratuito, e nell’arte un acquisto penoso si
decide, che questa prevalga a quella sì nel merito, che nella lode.
Chi studia cerchi l’ottimo, e lo cerchi dov’è senza che gl’importi se sia
nello stile di quindici, o vent’anni sono, o di questi giorni, poichè il
buono (come il cattivo) è di tutti tempi; Basta saperlo trovare, conoscere,
e approfittarsene.
Per mia disgrazia irreparabile son vecchio, ma se fossi giovane vorrei
imitare quanto mai potessi nel cantabile quegli, che sono chiamati col
brutto nome d' Antichi, e nell' allegro questi che godono il bellissimo
carattere di Moderni. Se '1 mio desiderio è vano all’età in cui mi trovo,
non sarà infruttuoso ad un savio Scolaro, che brami egualmente d’esser abile
nell’ una, e nell’altra forma, che è l’unica strada per arrivare alla
perfezione; Se poi si dovesse scegliere, gli direi con franchezza, che si
attaccasse al gusto de’ primi senza temere, che la parzialità m’ingannasse.
Ogni modo di cantare ha differente rango; Vi si distingue il virile dal
puerile, come il Nobile dal Plebeo. Chi studia non speri mai d’incamminarsi
agli applausi, se non gli fa orrore l’ignoranza.
Chi non aspira ad occupare il primo luogo già comincia a cedere il secondo,
e a poco a poco si contenta dell’ultimo.
Se si permettono a tante deboli Cantatrici i passi scritti in vigore del
loro privilegio, non deve chi studia per diventar un buon Professore
imitarne l’esempio. Chi si avvezza ad essere imboccato diventa sterile, e si
fa schiavo della sua memona.
Se lo Scolaro avesse difetti, particolarmente di naso, di gola, o d’orecchio
non canti mai se non è presente il Maestro, o qualcheduno che intenda la
Professione, e lo corregga, Altramente acquistano maggior forza, e la perde
il rimedio.
Studiando a Casa le sue lezioni canti di tempo in tempo avanti d’uno
specchio, non per incantarsi alla compiacenza delle proprie bellezze, ma per
liberarsi da i moti convulsivi del corpo, o del volto (che con tal nome
chiamo tutti que' vizi smorfiosi d’un Cantore affettato) che quando han
preso piede, non se ne vanno mai più.
Le ore più proprie per lo studio sono le prime del Sole; Le altre poi,
escluse le necessarie all’individuo, sono per chi ha bisogno di studiare.
Dopo un lungo esercizio, e possesso d’intonazione, di messe di voce, di
trilli, di Passaggi, e di Recitativi ben espressi, se lo Scolaro considera,
che l’Istruttore non può insegnargli tutta quella perfetta esecuzione, che
all’arte finissima dell’Arie richiedesi, nè essergli sempre al fianco,
allora comincerà a conoscere il bisogno, che ha di quello studio in cui il
miglior Cantante del Monde è Discepolo, e Maestro di se stesso; Se quel
riflesso è maturo, io lo consiglio per sua prima illuminazione di leggere il
seguente capitolo per ricavarne poscia maggior vantaggio da chi sa cantar le
Arie, e insegnarle; Se non lo fosse, più acerbo, e più amaro sarebbe il
frutto.
Dell’Arie
Se chi introdusse l’uso di ripigliar le Arie da capo ebbe
per motivo il far comprendere l’abilità di chi canta variando le repliche
nell’intercalare non può biasimarsi l’invenzione da chi ama la Musica, però
tolse una gran forza alle parole.
Da i nominati Antichi le Arie si cantavano anch’esse in tre maniere diverse:
Per il Teatro lo stile era vago, e misto: Per la Camera miniato, e finito: E
per la Chiesa affettuoso, e grave. Questa differenza a moltissimi moderni è
ignota.
Non v’è per un Cantore obbligo più preciso, che lo studio dell’Arte, poichè
son quelle, che gli formano, o distruggono il concetto. Ad un acquisto così
prezioso poche lezioni verbali possono servir d’insegnamento, nè gran
profitto risulterebbe nè meno allo Scolaro, quando anche avesse una quantità
d’Arie in cui fossero scritti in mille forme i Passi più rari, perchè non
basterebbono per tutte, e mancherebbon sempre di quel dolce portamento di
voce dell’Autore, che incontrastabilmente è il primo mobile dell’arte, e
della natura. Tutto quello, che a mio credere si possa, consiste in
persuaderlo di osservar attentamente il bellissimo Disegno col quale
regolansi i migliori Cantanti col Basso, e a misura, che la sua capacità si
aumenta egli ancora anderà scoprendo l’artificio, e l’intelligenza. Se poi
non sapesse come copiare il Disegno di que’Valentuomini, glie lo insegnerà
l’esempio d’un mio cordialissimo amico, che non andava mai a sentir Opere
senza la composizione di tutte quell’Arie, che il più famoso Professore
cantava; Ivi nel moto de’ Bassi contemplando con ammirazione la più studiata
finezza dell’Arte totalmente ristretta nel rigor più severo del Tempo ne
ricavò qualche progresso.
Fra le cose degne di considerazione se gli presenterà a prima vista nel
medesimo Disegno l’ordine col quale tutte le Arie divise in tre parti
vogliono esser cantate. Nella prima non chieggono, che ornamenti semplici,
gustosi, e pochi, affinchè la composizione resti intatta: Nella seconda
comandano, che a quella purità ingegnosa un artificio singolare si aggiunga,
acciò che se n’intende senta, che l’abilità di chi canta è maggiore: Nel dir
poi le Arie da capo, chi non varia migliorando tutto quello, che cantò, non
è grand’Uomo.
Si avvezzi dunque chi studia a replicarle sempre diversamente, che (se non
m’inganno) un abbondante, benchè mediocre Vocalista merita assai più stima
d’un migliore, che sia sterile, perchè questi non può dilettar
gl’intelligenti, che la prima volta, e quello se non sorprende colle rarità
delle sue produzioni, almeno colla diversità alimenta l’attenzione.
Quegli che sono nel numero degli ottimi Antichi s’impegnavano di sera in
sera di cangiar nell’Opere non solo tutte le Arie patetiche, ma qualcheduna
delle allegre ancora. Chi studia, e non assoda bene i fondamenti non può
sostenere il grave peso d’un esempio così importante.
Senza variari l’Arte dell’Arie non si scoprirebbe mai l’intendimento de’
Professori, anzi dalla qualità della variazione facilmente si conosce fra
due Cantori di prima sfera qual sia il migliore.
Ritornando dalla digressione al suddetto Disegno dell’Arie, lo Scolaro vi
troverà le regole dell’artificio, e la distribuzione dell’ingegno; Quelle
insegnano, che il Tempo, il Gusto, e l’intendimento sono mezzi talvolta poco
men che inutili a chi non ha la mente provvida d’abbellimenti improvvisi: E
la seconda non permette, che la superfluità de’ medesimi pregiudichi la
composizione, e confonda l’udito.
Chi studia impari prima di sapere, e poi del molto, che saprà sappia anche
prevalersene con giudizio. Per esserne pienamente persuaso osservi, che i
Cantanti più celebri non fanno mai pompa del loro talento in poche Arie, non
ignorando che quando i Vocalisti in un giorno solo espongono al pubblico
tutto ciò, che hanno in bottega son vicini a far Banco rotto.
Allo Studio dell’Arie (già’l dissi) non v’è diligenza che basti; E se
trascuranti certe cose, che pajono o sieno di poco rilievo come potrà l’Arte
esser perfetta se non è finita?
Nell’Arie a solo l’applicazione di chi studia l’artificio è solamente
soggetta al Tempo, & al Basso, ma in quelle, che sono accompagnate da
Strumenti, allora bisogna, che sia intenta al loro andamento ancora per
evitar quegli errori, che si commettono da chi non imparò a conoscerli.
Per non metter piede in fallo cantando le Arie due forti insegnamenti fanno
un gran lume a chi studia; Il primo esorta con un savio consiglio ad errar
mille volte in privato (se occorre) con sicurezza di non fallar mai in
pubblico; E il secondo a forza di ragioni, che non hanno risposta, ordina
che si cantino alla prima prova senz’altri ornamenti che naturali, con ferma
intenzione però, che si esamini nello stesso tempo colla mente il sito dove
convengano gli artificali nella seconda; Così di ripetizione in ripetizione,
e di ben in meglio cangiando sempre si diventa insensibilmente un gran
Cantore.
Lo studio più necessario, e molto più difficile d’ogn’altro per cantar
perfettamente le Arie è quello di cercare il facile, e di ritrovarlo nella
bellezza del pensiero. Chi ha la sorte di poter unire doti si pellegrine ad
un soave portamento di voce, fra Professori è il più felice.
Chi studia a dispetto d’un ingrato naturale per sua consolazione sovvengasi,
Che l’Intonare, l’Esprimere, le Messe di voce, le Appoggiature, i Trilli, i
Passaggi, e l’Accompagnarsi sono qualità principali, e non difficoltà
insuperabili. So che non bastano per cantar bene, e che bisognerebbe esser
pazzo per contentarsi di non cantar male, ma sogliono chiamar l’artificio in
ajuto, che di rado le abbandona, e talora viene da sè, Basta studiare.
Fugga tutti quegli abusi, che si sono sparsi, e stabiliti nell’Arie se vuol
conservare alla Musica il suo pudore.
Ogni Cantante (non che lo Scolaro) deve astenersi dalle caricature per le
pessime conseguenze, che seco portano. Chi fà ridere, difficilmente si fà
stimare: Disgustano che non ha piacere di passar per ridicolo, o per
ignorante: Nascono per lo più dalla simulata ambizione di corregger gli
altri per far pompa della propria intelligenza; Piacesse a Dio, che non
fossero nudrite col velenoso latte dell’invidio, o della mormorazione: E
degli esempi ci fanno purtroppo sentire, che si attaccano; Giustissimo è il
gastigo, ut poena Talionis istituita da San Damaso, e il rimprovero è a
proposito, giacchè le Arie caricate han rovinato più d’un Cantore.
Non ho persuasiva ne parole che possano raccomandare come vorrei, e quanto
bisogna il rigor di Tempo a chi studia; E se più d’una volta ne replico
l’istanza, anche più d’una occasione me ne porge il motivo, imperocchè frà i
primi della Professione pochissimi son quegli, che non ne sieno ingannati da
una quasi insensibile alterazione, o diminuzione, e qualche volta da tutte
due, le quali benchè in principio della composizione appena si comprendano,
nel corso però dell’Arie diventando a poco a poco maggiori, nel fine poi se
ne scopre lo svario, e collo svario l’errore.
Se non consiglio chi studia ad imitare diversi Moderni nel loro modo di
cantar le Arie se n’incolpi il rigoroso precetto del Tempo, che essendo
costituito dall’Intelligenza per le legge inviolabile alla Professione
severamente me lo proibisce; E a dire il vero, il poco conto che ne fanno
per sacrificarlo al gusto insulso de’ loro amati Passaggi è troppo ingiusto
per tollerarlo.
Non è compatibile la debolezza di certi Vocalisti, che pretendono, che
un’Orchestra intera si fermi nel più bel corso del regolato movimento
dell’Arie per aspettare i loro mal fondati capricci imparati a mente per
portarli da un Teatro all’altro, e forse rubati al popolare applauso di
qualche fortunata più che esperta Cantatrice a cui si condona l’errore del
Tempo in grazia dell’esenzione. Adagio, adagio colla critica, mi dice un
arbritrario: Questo, se nol sapete, si chiama Cantare alla Moda; Cantar alla
Moda? Voi v’ingannate, rispondo io; Il fermarsi nell’Arie ad ogni seconda, e
quarta, e sù tutte le settime, e seste del Basso era studio vano de’
Professori antichissimi disapprovato (sono già più di cinquant’anni) dal
Rivani (detto Ciecolino) insegnando con ragioni invincibili, e degne d’esser
eterne, che chi si fa cantare trova sul Tempo congruenza di sito che serva
agli abbellimenti dell’arte senza inventare, nè mendicar pause. Se fosse
documento che meritasse imitazione si conobbe da quegli che se lo
impedissero nell’animo, frà quali il primo fu il Signor Pistocchi Musico il
più insigne de’ nostri, e di tutti i tempi, il di cui nome si è reso
immortale per essere stato egli l’unico Inventore d’un gusto finito, e
inimitabile, e per aver insegnato a tutti le bellezze dell’Arie senza
offendere le misure del Tempo. Questo solo esempio, che val per mille (o
riverito Moderno) dovrebbe bastare per disingannarvi; ma se mai foste
incredulo, vi aggiungerò, che Siface col suo divino mellifluo ne abbracciò
l’insegnamento: Che Buzzoleni con una intelligenza incomparabile ne adorava
(per così dire) il precetto; Che Luigino comparve dopo col suo dolce, &
amoroso stile a seguirne l’orme; Che la Signora Boschi per gloria del suo
sesso ha fatto sentire, che le Donne che studiano possono insegnare colle
medesime leggi l’artificio più raro anche agli Uomini di credito; Che la
Signora Lotti accompagnata dalle stesse regole, e da una soavità penetrante
chiedea cantando il cuore ne si potea negargli ciò ch’era suo. Se Personaggi
di questa sfera, in cui farebbe ignoranza, o malizia se non inchiudessi
colla mente (giacchè non posso colla penna) diversi Cantori celebratissimi
l’applauso de’ quali corre presentemente per tutta l’Europa senza ch’io li
nomini; Se tutti questi con certi Dilettanti capaci d’ingelosire anche i più
abili Professori non bastassero a farvi comprendere, che non si può, nè si
deve arbitrare dovreste almen capire, che coll’error del Tempo cadete in
un’altro forse maggiore, che è quello di non sapere, che quando la voce è
senza accompagnamenti è priva d’armonia, e conseguentemente resta senz’arte,
e fà sbavigliar gl’intelligenti. Voi forse per iscusarv più, che per
giustificarvi mi direte, che pochi ascoltanti hanno questo discernimento, e
che infiniti sono gli altri, che ciecamente applaudono a tutto ciò, che ha
qualche apparenza di novità. Ma di chi è l’errore? Quella Udienza, che
loderebbe anche il biasimo non copre i vostri difetti, allorchè scopre la
sua ignoranza; Tocca a voi correggerli, e abbandonando la vostra mai fondata
ostinazione, che la libertà, che vi prendete urta la ragione, e insulta que’
forti insegnamenti, che nello stesso tempo condannano voi, e come complici
del vostro delitto, tutti que’ Sonatori, che v’aspettano con pregiudizio del
loro grado, perchè l’ubbidire è un atto servile, che non conviene a chi è
vostro compagno, vostro eguale, e a chi non può riconoscere altro Padrone,
che il Tempo. Riflettete in fine, che il suddetto ammaestramento vi sarà
sempre vantaggioso, che se (errando) avete la sorte di guadagnar gli eviva
degl’ignoranti, allora con giustizia meriterete ancor quelli
degl’intelligenti, e l’applauso sarà universale.
Non terminano però cogli errori del Tempo i giusti motivi di obbligar chi
studia a non imitare i Signori Moderni nell’Arie, orchè patentemente
scorgesi, che tutta la loro applicazione è diretta a romperle, e a
sminuzzarle in guisa, che non è possibiledi poter più sentire , nè parole,
nè pensieri, nè modulazioni, nè discernere un’Aria dall’altra cagione di tal
somiglianza, che una che se ne senta serve per mille; E la Moda trionfa? Si
credeva (non sono molt’anni) che in ogni Opera bastasse al più gorgheggiante
Professore un’Aria rotta per isfogarsi, ma i Cantanti d’oggidì non sono di
quel parere, anzi coem non fossero contenti appieno di trasformarle tutte
con orrida metamorfosi in tanti Passaggi corrono a briglia sciolta ad
attaccare con rinforzate violenze i loro finali per riparazione di quel
tempo, che sognansi d’aver perduto nel corso dell’Arie. Nel capitolo delle
tormentate Cadenze vedremo in breve se la moda di buon gusto, e in tanto
ritorno agli abusi, e ai difetti dell’Arte.
Non so positivamente chi sia stato fra’ Moderni quel Compositore, o
Vocalista ingrato, che ha avuto cuore di riformar l’amoroso Patetico
dall’Arie come non fosse più degno dell’onore de’ suoi comandi dopo una
lunga, e grata servitù; Chiunque però siasi, certo è ch’egli ha tolto alla
Professione ciò, ch’ella avea di migliore. Il mio debole intendimento non
arriva a svilupparne la causa più, che se chiedo a tutti i Musici in
generale, che concetto abbiano del Patetico, questi uniti d’opinione (cosa
che di rado succede) mi rispondono, Ch’egli è la delizia più cara
dell’udito, la psssione più dolce dell’animo, e la base più forte
dell’armonia; E di si belle prerogative non ne sentirà più nota senza
saperne il perchè? Ho inteso: Non bisogna ch’io interroghi i Professori, ma
la pazza bizzarria del popolo Protettor volubile della Moda, che non potrà
soffrirlo. Eh che questo è un inganno della mia opinione; La Moda, e il
popolo vanno a seconda come l’acque di que’ Torrenti, che portate dalla
piena cangiano sovente d’alveo, e poi al primo Ciel sereno si ritirano nel
loro nulla; Il male è nella sorgente, la colpa è deì Cantori; Lodano il
Patetico, e cantan l’Allegro? Sarebbe ben privo affatto di senso comune chi
non gl’intendesse. Conoscono il primo per ottimo, ma sapendo ch’egli è assai
più difficile del secondo lo lasciano a parte.
Altre volte udivansi in Teatro diverse Arie su quel dolcissimo metodo
precedute, ed accompagnate da armoniosi, e ben modulati Strumenti , che
rapivano i sensi a chi ne comprendeva l’artificio, e la melodia; Se poi
erano cantate da quelle cinque o sei persone illustri, che nominai, allora
non era possibile, che al moto violento degli affetti l’umanità negasse la
tenerezza, e le lagrime. O gran prova per confondere l’idrolatrata Moda! V’è
forse in oggi chi al miglior Canto s’intenersica, e pianga? No (dicon tutti
gli ascoltanti, nò) poichè il Cantar sempre allegro de’ Moderni benchè nel
suo forte sia meritevole d’ammirazione, se arriva, non passa l’abito
esteriore di chi ha l’orecchio delicato. Il gusto de’ chiamati Antichi era
un misto di gajo, e di cantabilela di cui varietà non potea far di meno di
dilettare; L’odierno è tanto preoccupato del suo, che purchè s’allontano
dall’altro si contenta di perdere la maggior parte della sua vaghezza; Lo
studio del Patetico era la più cara occupazione de’ primi; E l’applicazione
de’ Passaggi più difficili è l’unica meta de’ secondi. Quegli operavano con
più fondamento; E questi eseguiscono con più bravura. Ma giacchè il mio
ardire è giunto fino alla comparazione de’ Cantanti più celebri dell’uno, e
dell’altro stile, gli si perdoni anche la temerità di conchiuderla dicendo,
Che i Moderni sono inarrivabili per cantare all’udito, e che gli Antichi
erano inimitabili per cantare al cuore.
Non si niega però, che i migliori Vocalisti d’oggi non abbiano in qualche
parte raffinato il gusto passato con produzioni degne d’esser imitate non
solo da chi studia, ma anche da chi canta; Anzi per evidente contrassegno di
stima bisogna pubblicamente confessare, Che se amassero un poco più il
Patetico, e l’espressiva, e un pò meno i Passaggi potrebbero gloriarsi di
aver condotta l’Arte alla sommità del grado.
Potrebbe anch’essere, che le stravaganti idee, che in molte composizioni ora
si sentono fossero quelle che togliessero a suddetti Cantori il modo di
poter unire il cantabile alla loro intelligenza, imperciocchè quest’Arie
all’usanza vanno a spron battuto ad agitarli con moti così violenti, che li
privano di respiro, non che di far pompa del loro finissimo intendimento. Ma
Dio immortale! Giacchè ci sono tanti compositori moderni (tra’ quali più
d’un ve n’ha di mente eguale, e forse più aperta di quelle de’ migliori
Antichi) per qual ragione, con qual motivo escludono sempre dalle rare
invenzioni de’ loro bellissimi pensieri il sospirato Adagio? Che delitto può
mai commettere il suo flemmatico temperamento? Se non può galoppare coll’Arie,
che corrono la posta, perchè non lasciarlo con quelle, che han bisogno di
riposo, o almeno con una sola, che pietosa assista un infelice Eroe, allor
deve piangere, e morire in Teatro? Signor nò, la gran Moda vuol che pianga,
e crepi cantando presto, e allegramente. Ma chè! L’ira del gusto moderno non
si placa col sacrificio solo del Patetico, e dell’Adagio amici
indivisibilissimi, ma passa tant’oltre, che se le Arie non hanno la terza
maggiore sono anch’esse per confederazione proscritte. Si può sentir di
peggio? Signori Compositori (io non parlo agl’insigni, che colla dovuta
venerazione) la Musica a mio tempo cangiò tre volte stile; Il primo, che
piacque sù le Scene, e in Camera fù quello di Piersimone, e di Stadella; Il
secondo è deì migliori, che vivono, e lascio giudicare agli altri se sieno
giovani, e moderni. Del vostro, che non è ancora stabilito affatto in
Italia, e che di là da Monti non ha credito alcuno, ne parleranno fra poco
tempo i posteri giacchè le mode non durano. Ma se la Professione deve
esistere, e finir col Mondo, o voi stessi vi disingannerete, o lo
riformeranno i vostri Successori; Sapete come? Esiliando gli abusi; e
richiamando il primo, il secondo, e il terzo Tuono per sollevare il quinto,
il sesto, e l’ottavo oppressi dalle fatiche: Faranno risuscitare il quarto,
e il settimo morti per voi, e sepolti in Chiesa co’ Finali: Per gusto di chi
canta, e di chi intende si udirà l’Allegro misto di quando in quando col
Patetico: Le Arie non saranno tutte soffocate dalla indiscrezione degli
Strumenti, che coprono l’artificiosa miniatura del piano, le voci delicate,
e quella ancora di chi non vuol urlare: Non soffriranno più l’importuna
vessazione degli Uniformi inventati dall’ignoranza per nascondere al popolo
la debolezza di tanti, e tante. Ricupereranno la perduta armonia
strumentale: Saranno composte per più Cantanti, che per i Sonatori: La parte
che canta non avrà più la moritificazione di cedere il suo luogo a i
Violini: I Soprani, e i Contralti non canteranno tutte le Arie all’uso de’
Bassi a dispetto di mille ottave: E finalmente faranno sentir le Arie, più
gustose, e meno simili: Più naturali, e più cantabili: Più studiate, e meno
penose: E tanto più nobili quanto più lontane dalla plebe. Ma già sento
dirmi, che la libertà Teatrale è vasta, che la moda piace, e che la mia
temerità cresce; Ed io non dovrò rispondere, che l’abuso è maggiore, che
l’invenzione è perniziosa, e che la mia opinione è comune? Sarò io forse tra
Professori quel solo che non sappia, che l’ottima composizione fa cantar
bene, e che la pessima pregiudica? Non abbiamo più d’una volta sentito, che
la qualità della medesima è stata capace di stabilire in poche Arie il
concetto ad un Cantor mediocre, e distruggerloa chi a forza di merito se lo
aveva conquistato? La Musica compsta da chi ha intelligenza, e gusto
istruisce chi studia, perfeziona chi sa, e diletta chi sente. Ma giacchè
sono entrato in ballo si danzi.
Chi primo guidò la Musica in Iscena probabilmente pensò di condurla ai
trionfi, ed innalzarla al Trono. E chi si sarebbe immaginato mai, che nel
breve corso di pochi Lustri ella vi dovesse servire di spettacolo funesto
alla di lei propria Tragedia? Fabbriche eccelse de’ Teatri: Chiunque vi
rimira senza fremere non considera, o non sa, che siete state erette dalle
preziose rovine dell’armonia; Voi siete l’origine degli abusi, e degli
errori: Da voi nasce il moderno stile, e la moltitudine de’ Scrittori di
Canzonette; Voi siete la sola cagione, che pochissimi sieno in oggi que’
Professori di ben fondato intendimento a cui per giustizia convenga il
degnissimo nome di Maestri di Cappella, poichè essendo stato il povero
Contrappunto dal secolo corrotto condannato a mendicare un pezzo di pane in
Chiesa, allorchè tripudia l’ignoranza di molti in Teatro, la maggior parte
de’ Compositori è stata costretta, o dall’avidità dell’oro, o dalle troppo
dure leggi dell’indigenza ad abbandonarne talmente lo studio, che si prevede
(se nol soccorre il Cielo per mezzo di chi lo possiede in Eccellenza, o di
questi pochi che ne sostengono gloriosamente i cari Precetti) Che la Musica
dopo aver perduti i nomi di Scienza, e di compagna della Filosofia corre
manifesto pericolo d’esser riputata indegna d’erntrare ne’ Sacri Templi per
levare lo scandalo a chi vi sente le Gighe, i Menuetti, e le Furlane; E in
fatti, dove il gusto è depravato, chi potrebbe distinguere le Composizioni
Ecclesiastiche dalle Teatrali se si pagasse alla Porta?
Sò che con giusti applausi il Mondo onora cert’altri pochi Maestri
intelligentissimi sì nell’uno, che nell’altro stile a quali indirizzo chi
studia per cantar bene; E se’l loro numero non fosse così ristretto, come si
crede e penso, io ne chieggo perdono a chi non vi restasse compreso,
sperando facilmente d’ottenerlo, perche l’errore involontario non offende, e
l’Uomo grande non conosce altra invidia, che quella che è virtù.
Gl’ignoranti per lo più non soglion essere indulgenti, anzi sprezzando, e
odiando tutto ciò, che non comprendono saranno quegli appunto, che non mi
daran quartiere.
Dimandai per mia disgrazia ad uno di questi da chi avesse imparato
Contrappunto: Dallo Strumento, mi rispose subito. Buono. Di che Tuono
(soggiunsi, aver voi composta l’introduzione della costr’Opera? Che Tuoni,
che Tuoni (m’interruppe bruscamente) con che mi andate voi intronando il
capo con queste muffe interrogazioni? Si sente bene da che scuola venite. La
Moderna, se nol sapeste, non conosce altri Tuoni, che quelli, che succedon
al lampo, e con ragion si ride della sciocca opinione di chi s’immagina, che
sieno due, quanto di chi sostiene, che divisi in Autentici, e Plagali sieno
otto (e più se bisogna) lascia prudentemente libera la volontà ad ognuno di
comporre come gli pare, e piace; Il Mondo a tempi vostri dormiva, nè vi
dispiaccia se lo svegliò il nostro bizzarrissimo metodo con quell’allegria
gradita al cuore, e che incita il piede alla danza. Destatevi ancor voi
prima di morire, e sollevando la dura cervice dal modesto peso di tante idee
stravolte, fate veder, che la vecchiezza non disapprova ciò, che la gioventù
produce; Altramente sentirete, che le vostre istesse parole ritornando
indietro vi diranno, Che l’ignoranza odia tutto quel che è ottimo. Le belle
Arti vanno sempre più raffinandosi, e se pretendessero di farmi mentire, la
Musica mi diffenderà a spada tratta, ella non può andar più in su.
Svegliatevi dico, e se non siete totalmente privo di giudizio ascoltatemi,
impegnandomi di farvi confessare, che candidamente vi parlo. Per prova di
ciò sentite. Che il nostro vaghissimo stile sia stato inventato per
nascondere col bel nome di MODERNO gl’insegnamenti troppo difficultosi del
Contrappunto, non si può negare.
Che vi sia irrevocabil legge fra noi di esiliar perpetuamente il Patetico, è
verissimo perchè non voglian malinconie. Ma che da Satrapi vetusti si abbia
a dire, che andiamo a gara a chi fa spropositi più stravaganti, e mai più
intesi per vantarci poi d’esserne gl’Inventori, questa è una maligna e nera
impostura di chi ci vede esaltati: Crepi l’invidia. A buon conto voi vedete,
che quella stima che con pieni suffragi ci siamo acquistata decide; E se un
Musico non è della nostra Tribù non trova Protettor che lo guardi non che lo
stimi; Ma giacchè parliamo in confidenza, e colla sincerità sulla lingua,
Chi può cantar bene, Chi può ben comporre senza la nostra approvazione? Ogni
merito che avesse (se voi lo sapete) non ci mancano modi per rovinarglielo,
anzi poche sillabe ci bastano per distruggerglielo. GLI E’ ANTICO.
Ditemi in cortesia; Chi mai senza di noi avrebbe portata la Musica al colmo
della felicità colla sola facilità di levare all’Arie la nojosa emulazione
de’ primi, de’ secondi Violini, e delle Violette? V’è forse chi tanto osasse
di usurparci la gloria? Noi, noi siamo quegli, che a forza d’ingegno
l’abbiamo fatta salire al grado più sublime togliendogli ancora lo
strepitoso rumore de’ Bassi fondamentali in modo... (udite, e imparate) Che
se in una Orchestra vi fossero cento Violinisti siamo capaci di comporre in
maniera, che tutti suonino nell’istesso tempo la medesima Aria, che canta la
Parte. Che ne dite? Ardirete di biasimarci?
Il nostro amabilissimo metodo, Che non obbliga alcuno di noi allo studio
penoso delle regole: Che non inquieta la mente cogli affanni della
Specolatica, nè ci delude con quella vana cognizione, che pensa di ridurre
in atto ciò, che specolando si può investigare: Che non pregiudica alla
salute: Che incanta le orecchie alla Moda: Che trova chi lo ama, chi lo
pregia, e chi lo paga a peso d’oro; E voi oserete di criticarlo?
Che direm noi di quelle tetre, e stucchevolissime composizioni di quegli
Uomini che andate celebrando per i primi dell’Universo, ben che non abbiate
voce in capitolo? Non v’accorgete, che l’anticaglia di que’ Lazzeroni fà
venir l’accidia? Saremmo ben pazzi a impallidire, e diventar paralitici
sulle Cartelle per cercar l’Armonia, le Fughe, il loro Rovescio, il
Contrappunto doppio, la Multiplicazione de’ Suggetti, Strignergli, far
Canoni, e divers’altre seccaggini, che non sono più alla Moda (e quel che
peggio è) sono di poca lode, e di minor guadagno. Che ne dite adesso Sig.
Critico, avete voi inteso? Signor sì. E bene cosa mi rispondete voi? Nulla:
Mi stupisco ben sì, o Cantori amatissimi, che del profondo letargo in cui
siete con tanto vostro svantaggio. Voi dovreste svegliarvi, che è ormai
tempo, e dire a Compositoridi questa fatta, Che volete cantare, e non
ballare.
Delle Cadenze
Le Cadenze terminate dell’Arie sono di due sorte. Una da
Contrappuntisti chiamasi Superiore o di sopra, e l’altra Inferiore, o di
sotto. Per farmi più facilmente capire da chi studia dirò, che se una
Cadenza fosse (per esempio) in C sol fa ut per B quadro le note della prima
sarebbono La Sol Fa, e quelle della seconda Fa Mi Fa. Nell’Arie a voce sola,
o ne’ Recitativi un Cantante può scegliere quella Cadenza, che più gli
piace, ma se fossero accompagnate da voci, o da Strumenti non può cangiar la
Superiore coll’Inferiore, né questa con quella.
Sarebbe superfluo, ch’io parlassi delle Cadenze Tronche, perché sono
diventate comuni a chi non è Professore, e non servono, per lo più che ne’
Recitativi.
Le Cadenze poi di quinta in giù non componevansi dallo stile antico per un
Soprano cantando Arie a solo, o co’ strumenti se l’imitazione di qualche
parola non avesse obbligato il Compositore. Queste per non aver altro merito
che d’esser le più facili di tutte, e per chi scrive, e per chi canta sono
oggi le dominanti.
Nel capitolo dell’Arie ho esortato chi studia a sfuggir il torrente de’
Passaggi alla Moda, e mi sono anche impegnato di dire il mio debole
sentimento sopra le Cadenze correnti, ed eccomi pronto colla solita protesta
però di esporla con tutte le mie opinioni al Tribunale inappellabile
dell’Intelligenza, e del Gusto, affinché come Sovrani Giudici della
Professione, o condannino gli abusi delle moderne Cadenze, o gl’inganni
della mia mente.
Ogni Aria (per lo meno) ha tre Cadenze, che sono tutte e tre finali. Lo
studio de’ Cantori di oggidì (generalmente parlando) consiste nel terminare
la Cadenza della prima parte con un profluvio di Passaggi ad libitum, e che
l’Orchestra aspetti. In quella della seconda si moltiplica la dose alle
fauci, e l’Orchestra s’annoia. Nel replicar poi l’ultima dell’Intercalare si
dà fuoco alla girandola di Castel S. Angelo, e la Orchestra tarocca. Ma
perché mai assordare il mondo con tanti Passaggi. Io priego i Signori
Moderni di perdonarmi la troppo ardita libertà di dire in favore della
Professione, che il buon gusto non risiede nella velocità continua d’una
voce errante senza guida, e senza fondamento, ma nel cantabile, nella
dolcezza del Portamento, nelle Appoggiature, nell’Arte, e nell’Intelligenza
de’ Passi, andando da una nota all’altra con singolari, e inaspettati
inganni con rubamento di Tempo, e sul Moto de’ bassi, che sono le qualità
principali indispensabilmente essenzialissime per cantar bene, e che l’umano
ingegno non può trovar nelle loro capricciose Cadenze. Soggiungerò, che
antichissimamente lo stile de’ Vocalisti (secondo la relazione di chi
m’insegnò di solfeggiare) era insopportabile per motivo d’una quantità di
Passaggi nelle Cadenze che non finivano mai, come adesso, e che sempre erano
gli istessi, quali appunto son i presenti. Diventarono alla fin fine così
odiosi, che furono, come perturbatori dell’udito prima esiliati, che
corretti. Così anche succederà a questi al primo esempio d’un Cantore
accreditato, che non si lasci più sedurre dalle varie lodi popolari.
Di quella correzione i Successori di gran sfera se ne fecero una legge, che
forse non sarebbe distrutta se fossero in istato di farsi sentire, ma
l’opulenza, le flussioni, l’età, e la morte han privato chi vive di ciò, che
nel Canto v’era di più mirabile; Ora i Cantori si ridono a bocca aperta sì
della riforma che de’ Riformatori de’ Passaggi nelle Cadenze, anzi coll’averli
richiamati dal bando, e fatti comparire sulle Scene con qualche caricatura
di più, acciocché passino nell’opinione de’ gonzi per invenzioni pellegrine,
guadagnano somme immense d’oro, poco o nulla premendo loro se sieno stati
aborriti, e detestati per dieci, o dodici Lustri, o da cento Secoli. E chi
può biasimarli? Né l’invidia, né la pazzia oserebbon di farlo. Però se la
Ragione, che non è invida, né folle li chiamasse alle segrete confidenze del
cuore, e all’orecchio lor dicesse: Con qual ingiusto pretesto potete voi
usurparvi il nome di Moderni se cantate all’antichissima? Credete forse, che
il flusso della vostra gorga sia quello che vi produca ricchezza, e lodi?
Disingannatevi, e ringraziate l’abbondanza de’ Teatri, la penuria d’ottimi
Soggetti, e la stupidità di chi v’ascolta. Cosa risponderebbero? Nol so.
Veniamo ancora a conti più stretti.
Signori Moderni, potete voi dir di non burlarvi fra voi altri, allorché
nelle Cadenze ricorrete alla lunga filza de’ vostri Passaggi per mendicare
applausi dalla cieca ignoranza? Voi chiamate quel ricorso col nome di
Limosina chiedendo come per carità quegli evviva, che conoscete di non
meritar per giustizia, e in ricompensa mettete in derisione i vostri
Fautori, quando non hanno mani, piedi, né voci, che bastino per lodarvi?
Dov’è la buona legge, dov’è la gratitudine? E se mai se n’accorgessero?
Direttissimi Cantori, gli abusi delle vostre Cadenze se vi sono utili, sono
altrettanto perniciosi alla Professione, e sono i maggiori che commettiate,
perché son fatti a sangue freddo sapendo d’errare.
A vostro vantaggio disingannatene il Mondo, ed impiegate in cose degne di
voi quel bellissimo talento che Dio vi diede. Con più coraggio intanto
ritorno alle mie opinioni.
Bramerei volentieri di sapere con qual fondamento nelle Cadenze Superiori
certi Moderni di grido, e di nomi famosissimi facciano sempre il Trillo
sulla terza alta della nota finale, poiché il Trillo (che in quel caso deve
risolvere) non può a cagione della medesima terza, che essendo sesta del
Basso glielo impedisce, e le Cadenze restano senza risoluzione.
Quando anche credessero, che i migliori insegnamenti dipendessero dalla
Moda, parmi con tutto ciò, che dovessero qualche volta chiedere all’udito se
egli è soddisfatto d’un Trillo battuto dalla settima, e sesta d’un basso che
faccia Cadenza, e son sicuro che direbbe di no. Dalle regole degli Antichi
si impara, che il Trillo va preparato nelle stesse Cadenze sulla sesta del
Basso, affinché dopo si faccia sentire sulla quinta, perché quello è il suo
luogo.
Diversi altri di quella sfera fanno le suddette Cadenze all’uso de’ Bassi,
cioè di quinta in giù con un passaggio di note veloci cadendo di grado col
supposto di cantar bene, o di coprir l’ottave, però, benché mascherate si
fan conoscere e ne restano delusi.
In qualsivoglia Cadenza tengo ancora per infallibile che i Professori
primari non possano formare né Trilli, né Passaggi sulle penultime sillabe
di questi Vocaboli v.g. Confonderò, Amerò ecc. poiché sono ornamenti, che
non convengono su quelle sillabe che son brevi, ma bensì sulle loro
antecedenti.
Moltissimi poi si seconda sfera terminano le Cadenze inferiori alla francese
senza trillo, o per non saperla fare, o per la facilità di copiarle, o per
cercar qualche cosa che sostenga in apparenza il nome di Moderni, e
sbagliano in sostanza, imperocché i Francesi non si privano del Trillo nelle
Cadenze di sotto che nell’Arie patetiche e i nostri Italiani soliti a
caricar le Mode lo escludono in tutte, benché nelle allegre ci vada per
obbligo. So, che un buon Cantante può con ragione astenersi di farlo nelle
cantabili ancora, però di rado, che se una di quelle Cadenze è tollerabile
senza quel vago ornamento è assolutamente impossibile di non tediarsi in
fine a tante, e tante, che muoiono di morte improvvisa.
Sento che tutti i Moderni (o amici o nemici del Trillo che sieno) vanno alle
suddette Cadenze inferiori con una Appoggiatura alla nota finale su la
penultima sillaba del vocabolo, e questo ancora mi sembra difetto, parendomi
che in quell’occasione l’Appoggiatura non sia gustosa, che sull’ultima
sillaba all’uso antico, o di chi sa cantare. Se nelle stesse Cadenze di
sotto, i migliori Vocalisti d’oggidì credono di non errare, allorché fanno
sentire la nota finale prima del Basso, s’ingannano all’ingrosso, perché gli
è error massimo, che ferisce l’orecchio, e i precetti, e che diventa doppio
andando (come fanno) alla medesima nota coll’Appoggiatura, la quale, o che
ascenda, o discenda se non cade dopo del Basso è sempre pessima.
E non sarà forse peggior d’ogni difetto il tormentare gli ascoltanti con
mille Cadenze tutte fatte a un modo? Da che procede questa secca sterilità,
se ad ogni Professore è noto, che per farsi stimar cantando, il mezzo più
efficace è la fertilità de’ ripieghi?
Se fra tutte le Cadenze nell’Arie l’ultima concede qualche moderato arbitrio
a chi canta, acciò si conosca il fine delle medesime l’abuso è soffribile,
ma si cangia in abbominevole, quando un Cantore si mette di piè fermo co’
suoi noiosi gargarismi a nausear gl’intelligenti, che tanto più penano
quanto più sanno, che i Compositori lasciano ordinariamente in ogni Cadenza
finale qualche nota, che basta ad un ornamento discreto, senza cercarlo fuor
di Tempo, senza gusto, senza arte, e senza intendimento.
Stupor maggiore m’occupa assai più la mente se rifletto, che lo stile
moderno dopo di aver esposte tutte le Cadenze dell’Arie Teatrali al martirio
d’un moto perpetuo, abbia anche la crudeltà di condannare nella stessa pena
non solamente quelle delle Cantate, ma di non perdonarla nemmeno alle
Cadenze de’ loro Recitativi. Pretendono forse i Vocalisti col non
distinguere la Camera dalle smoderate gorghe della Scena d’esigere gli
evviva plebei ne’ Gabinetti Reali? Povere note! Voi non siete più figure di
Musica, che se lo foste non senza ingiustizia sareste alienate dalla
Sovranità delle Leggi.
Un ottimo Scolaro ne fugga l’esempio, e coll’esempio gli abusi, i difetti e
tutto ciò che è dozzinale, e comune, sì nelle Cadenze, che altrove.
Se l’inventar Cadenze particolari senza offesa del Tempo è stata una delle
degne occupazioni de’ chiamati Antichi, chiunque studia la rimetta in uso,
procurando d’imitarli nell’intelligenza di saper rubare un po’ di Tempo
anticipato, e di ricordarsi che i Conoscitori dell’artificio non aspettano
di ammirare la bellezza nel silenzio de’ Bassi.
Molti e molt’altri errori odonsi nelle Cadenze i quali erano antichi e son
diventati moderni; Furono ridicoli, e lo sono; Onde considerando, che chi
muta stile non lo migliora, posso probabilmente conchiudere, che il cattivo
si corregge dallo studio, e non dalla Moda.
Or lasciamo di grazia in pace per qualche momento le Opinioni de’ chiamati
Antichi e de’ creduti Moderni per osservare qual profitto abbia fatto lo
Scolaro, giacchè desidera di farsi sentire. Si ascolti dunque senza
abbandonarlo d’Istruzioni più forti, affinché giunga almeno a meritare il
nome di buon Cantante, quando non possa ottenerne un maggiore.
Osservazioni per chi canta
Ecco il Cantore in pubblico mediante gli effetti di quello
studio a cui si applicò nelle già scorse lezioni. Ma a che serve il farvisi
vedere! Nel gran Teatro del Mondo chi non rappresenta un degno personaggio
non fa altra figura che di vile comparsa.
Dalla fredda indifferenza che in moltissimi Vocalisti scorgesi per la
Professione si conghiettura, che aspettino la Musica supplice in atto
implorando la grazia d’essere benignamente accettata dalla loro generosa
bontà come umilissima, e obbligatissima serva.
Se tanti, e tanti non fossero persuasi d’aver abbastanza studiato non
sarebbe così raro il numero degli ottimi, né così folto quello degl’infimi.
Questi per dire a mente quattro Kirie pensano d’essere arrivati al Non plus
ultra; Se poi lor presentate una Cantata facile, e ben copiata, allora
invece di soddisfare al debito coll’impegno, vi diranno con impudente
disinvoltura Che gli uomini grandi non sono obbligati di cantar volgare
all’improvviso. E chi non riderebbe! Quel Musico che sa che le parole o
latine, o italiane che sieno, non fanno cangiar forma alle note, s’immagina
subito, che il pronto ripiego di quell’Uomo grande, nasca dal non cantar
franco, o dal non saper leggere, e l’indovina.
Infiniti sono quegli altri, che sospirano il momento d’uscire dalle penose
fatiche de’ primi studi per aver la sorte d’entrare nella turba de’
Mediocri; Quando poi giungono con quel poco che sanno ad urtare per divina
provvidenza in chi li pasca, fanno immediatamente una bellissima riverenza
alla Musica, nulla curandosi, che il Mondo sappia se sieno, o non sieno fra
viventi. Questi non credono che la Mediocrità in un cantante significhi
ignoranza.
Ve ne sono anche diversi, i quali non istudian altro che i difetti, e sono
dotati d’una meravigliosa facilità d’impararli tutti, e d’una memoria
profonda per non dimenticarsene mai. Il loro genio è così inclinato al
cattivo, che se dalla natura hanno per sorte un’ottima voce, sono
inconsolabili se non trovano l’arte di farla diventar pessima.
Chi nutre però sentimenti migliori cercherà una più nobile, e più ristretta
compagnia. Conoscerà il bisogno che ha d’altri lumi, d’altri documenti, e
d’altro Maestro ancora. Da questo vorrà apprendere coll’arte di ben cantare
quella di saper vivere, che tutta consiste nelle belle convenienze della
vita civile. Unita, che questa sia al merito, che si farà nel Canto, allora
ei potrà sperare la grazia de’ Monarchi e la stima universale. Se aspira al
concetto di giovane di spirito, e di giudizio, non sia vile, né temerario.
Fugga le persone abbiette, e screditate, e sopra tutto stia lontano da
quelle, che si abbandonano a scandalose licenze.
Non è da praticarsi quel Professore ancorché insigne, se ha maniere plebee,
e disapprovate, a cui non prema, purchè faccia la sua fortuna, se sia a
costo del suo decoro.
Ottima scuola è la Nobiltà da cui tanto si impara, quanto è gentile; Ma
siccome non v’è regola senza eccezione, dove il Musico non trova il suo
luogo se ne discosti senza dolersene, perché bastantemente parlerà per lui
il suo ritiro.
Se non fosse ricompensato da Grandi non se ne lagni mai, poiché si guadagna
poco, si può perder molto, e non è raro il caso. Il miglior partito è quello
di più attentamente servirli per aver almeno il piacere, o di vederli una
volta grati, o di farli sempre più ingrati.
I miei lunghi, e raddoppiati viaggi mi hanno dato campo di fermarmi poco men,
che in tutte le Corti d’Europa, e gli esempi più che le mie parole
dovrebbono persuadere ogni buon Cantante di vederle sì, ma senza impegnare
la libertà all’inganno. Le catene benché d’oro non lasciano d’esser catene,
e non son tutte di quel prezioso metallo. Oltre di che il pane che vi si
tira co’ denti (quando non è di farina de’ Padroni, e non si regala bene i
loro Fornai), ve lo impastano d’un certo loglio, che lo fa parer bianco di
fuori, ma dentro è così nero, che se non si converte in veleno produce
effetti di tanto pregiudizio, che incanta chi lo compra, accieca chi lo
vende, chi lo mangia non istudia più, inganna chi lo crede perpetuo; è poco
cotto per la salute del corpo, e troppo crudo per quella dell’anima.
Il Secolo della Musica sarebbe già finito, se i Cigni non facessero il loro
nido su qualche Teatro d’Italia, o sulle sponde Reali del gran Tamigi. O
cara Londra! Su gli altri fiumi non cantano più come soleano con soave
dolcezza la propria morte, ma piangon bensì amaramente quella di Augusti e
adorabili Principi, da’ quali erano teneramente amati e stimati. In oggi
Alia res Sceptrum, Alia Plectrum. Questo è il solito corso delle umane
vicende, e per Divino Decreto giornalmente si vede, che tutto ciò che
quaggiù è in moto, giunto che sia al sommo bisogna che per necessità
declini. Lasciamo le lagrime al cuore, e si parli di chi canta.
Questo se egli è prudente, non dovrà lasciar uscire dalla sua bocca senza
motivo di ragione quelle affettatissime parole, che disgustano, e sono tanto
in uso, cioè oggi non posso cantare, son raffreddato morto, e nel dir V. S.
mi scusi, si tosse un poco. Potrei attestare, che nel lungo corso della mia
vita non ho potuto sentir mai da Vocalisti questa benedetta verità, oggi sto
bene, quantunque la sincerità li obbligasse a pubblicarla; Riservano quella
intempestiva confessione pel giorno seguente, in cui non hanno poi alcuna
difficoltà di dire “non sono stato a’ miei dì così bene in voce come ieri”;
è però vero che in certe congiunture non solo è compatibile, ma necessario
il pretesto, perché a dirsela, l’indiscreta economia di taluno che vuol
sentir la Musica se gli costasse anche un vi ringrazio, arriva tanto oltre,
che crede obbligati i Professori di servir subito gratis, e che il rifiuto
sia un’ingiuriosa offesa, che meriti odio, e vendetta.
Ma se è legge Umana e Divina, che ognuno viva nelle sue onorate fatiche,
qual barbaro istituto condanna i Musici a servir senza mercede? O maledetta
prepotenza, o sordida avarizia!
Un Cantante pratico del mondo distingue i comandi, e le maniere di comandare
ancora; Sa ricusare obbligando, e farsi gloria d’ubbidire, non ignorando,
che il più fino interessato cerca talora di servire senza interesse.
Chi canta per desiderio di farsi onore già canta bene, e canterà meglio col
tempo; E chi non pensa che al guadagno, impara la miglior lezione per essere
un povero ignorante.
Chi crederebbe mai (se la sperienza nol facesse vedere) che la più bella
virtù pregiudicasse un Cantore? E pur dove trionfa l’ambizione o la superbia
(inorridisco a dirlo) l’adorabile umiltà tanto più avvilisce quanto è più
grande. Parmi a prima vista, che la superbia con audace possesso usurpi il
luogo all’intelligenza, però se metto gli occhiali ci vedo l’ignoranza in
maschera.
La superbia altro non è, che un artificio del corpo, gonfio dalla politica
per nascondere la debolezza dell’ingegno: Eccone l’esempio: certi Cantanti
non sarebbero imperturbabili nella disgrazia di non poter dire
all’improvviso quattro note, se colla loro intumidita malizia non sapessero
dare ad intendere al pubblico a forza di strette di spalle, d’occhiate
torbide, e di maligne voltate di testa, che quegli errori massicci, ch’essi
commettono sono dell’Organista, o dell’Orchestra.
Per umiliar la superbia basta levarle il fumo dell’incenso. Chi canterebbe
meglio di un superbo se non si vergognasse di studiare? Chi s’insuperbisce
ai primi applausi senza riflettere se vengono dalla sorte, o dalla
adulazione, è pazzo; E se crede di meritarli ha finito. Chi non regola la
sua voce a misura del sito dove canta deve correggersi, essendo grandissima
balordaggine di chi non distingue un vasto Teatro da un Gabinetto angusto.
E’ da biasimarsi assai più chi cantando a due, a tre, e a quattro, copre la
voce de’ compagni, poiché, se non è ignoranza, è qualche cosa peggiore.
Tutte le composizioni a più voci devono cantarsi come stanno, né vogliono
altr’arte, che semplice e nobile. Mi sovviene, o mi sognai d’aver sentito,
un famoso Duetto messo in pezzi minuti da due Professori di grido, impegnati
dalla emulazione a proporre, e vicendevolmente a rispondersi, che in fine
terminò in una gara a chi faceva più spropositi.
La correzione degli amici accreditati insegna molto; Maggior profitto però
si ricava dalla rabbiosa critica de’ Malevoli, che quanto più è intenta a
scoprire i difetti altrui, tanto più grande è il benefizio senz’obbligo.
Chiunque canta tenga per indubitato, che gli errori corretti dagli inimici
sono così ben purgati, che non lasciano segno alcuno, e tosto si dileguano
dalla vista e dalla memoria; Ma gli emendati da sé, o si fanno incurabili, o
restano cicatrici perpetue, che minacciano ad ogni momento di riaprirsi.
Chi canta con applauso in un luogo solo non formi gran concetto del suo
sapere; Cangi più volte Clima, ed allora con discernimento migliore
conoscerà fin dove arriva il suo talento.
Per piacere universalmente la ragione dice che si deve cantar sempre bene; e
s’ella tace, l’utile con forti espressioni esorterà di unirsi al gusto (purchè
non sia depravato) di quella Nazione che ascolta, e spende. Se chi canta
bene provoca l’invidia, se canta meglio la confonde.
Non so se un perfetto Vocalista possa anch’essere perfetto Attore, poiché la
mente divisa in un istesso tempo da due operazioni differenti probabilmente
inclina più all’una che all’altra; Essendo però assai più difficile di
cantar bene che di ben recitare, il merito del primo prevale al secondo. Che
bella felicità sarebbe di chi egualmente le possedesse in perfetto grado!
Se dissi che un cantante non deve più copiare, ora lo replico colla ragione
appresso: Il copiare è da Scolaro, e l’inventare è da Maestro.
Chi canta sovvengasi che l’oziosa pigrizia è quella che copia, e non si
copia male, che dall’ignoranza.
Prima che l’intelligenza collo studio faccia un bravo Cantore, l’ignoranza
con una copia sola ne fa mille cattivi; Però fra questi non v’è chi la
riconosca per Precettrice.
Se tante e tante Cantatrici (tra le quali rispetto chi devo) si
accorgessero, che per copiarne una buona sono diventate pessime, non si
farebbono ridicolissimamente burlar su’ teatri colle loro affettazioni
presumendo di cantar le Arie della medesima cogli stessi passi. Il loro
inganno è così grande (quando non fosse de’ loro Maestri) che si lascian più
tosto guidare dall’istinto che dalla ragione, poiché questa fa vedere, che
per strade diverse si cammina agli applausi, e cogli esempli passati, e
presenti fa anche in oggi sentire che due Donne non sarebbono egualmente
sublimi se una copiasse l’altra.
Se la convenienza che si deve al bel Sesso non perdona loro l’abuso di
copiare allorché pregiudica alla Professione, cosa dovrà dirsi mai della
debolezza di que’ Vocalisti, che invece d’inventare copiano non solo le Arie
intere degli Uomini, ma anche quelle delle Femmine? O gran cecità che toglie
il lume al buon senso!
Supposto un impossibile, cioè, che un cantante arrivasse a copiare in
maniera che non si conoscesse l’originale, crederebbe egli forse di poter
attribuirsi un merito che non è suo, e di stare sulle gale cogli abiti
altrui senza temer di restare ignudo?
Chi sa copiare nella Musica non piglia altro che il Disegno, perché quell’ornamento
che si considera con ammirazione finchè gli è naturale, perde immediatamente
la sua bellezza se gli è artificiale.
L’artificio più degno d’un Professore deve imitarsi e non copiarsi; A
condizione ancora che non somigli né men per ombra all’originale, altramente
invece d’una bella imitazione diventa una copiaccia.
Non so decidere se sia più da sprezzarsi chi non può imitar senza caricature
chi canta bene, o chi non imita bene se non chi canta male.
Se molti Cantori sapessero, che la cattiva imitazione è un mal contagioso,
che non si attacca a chi studia, il Mondo non sarebbe ridotto all’infelicità
di non poter vedere in un Carnovale altro che un Teatro provvisto d’ottimi
soggetti senza speranza di vicino rimedio. Suo danno; Impari di lodare il
merito, e di non confettar il biasimo, per servirmi di un vocabolo modesto.
Chi non sa rubare il Tempo cantando, non sa comporre, né accompagnarsi, e
resta privo del miglior gusto, e della maggiore intelligenza.
Il rubamento di Tempo nel patetico è un glorioso latrocinio di chi canta
meglio degli altri, purchè l’intendimento e l’ingegno ne facciano una bella
restituzione.
Esercizio non men necessario di quello è lo studio mellifluo del Portamento
di voce senza di cui ogni applicazione è vana.
Chi ne pretende l’acquisto oda i precetti del cuore più che quelli
dell’Arte.
O gran Maestro è il cuore! Ditelo voi Cantori amatissimi, e dite per obbligo
di gratitudine, che non sareste i primari della Professione se non foste
suoi Scolari: Dite, che in poche lezioni ei v’insegnò l’espressiva più
bella, il gusto più fino, l’azione più nobile, e l’artificio più ingegnoso.
Dite (benché non sia credibile) che corregge i difetti della natura poiché
raddolcisce la voce aspra, migliora la mediocre, e perfeziona la buona: Dite
che quando canta il Cuore voi non potete mentire, né la verità ha maggior
forza di persuadere: E pubblicate infine (giacchè non posso dirlo io) che da
lui solo imparaste quel non so che di ignoto soave che sottilmente passa di
vena in vena, e trova l’anima.
Ancorché la strada del Cuore sia lunga, scabrosa, e cognita a pochi, non di
meno le sue difficultose opposizioni non sono insuperabili da chi non si
stanca di studiare.
Il primo Vocalista del Mondo studia sempre, e tanto studia per mantenersi il
concetto quanto faceva per acquistarselo.
Per arrivare a quel glorioso fine ognun sa che non v’è altro mezzo per lo
studio, ma non basta; Bisogna anche saper come, e da chi si deve studiare.
Ci sono in oggi tanti Maestri quanti sono i Professori di tutta la Musica in
generale; Ciascheduno insegna, non già i primi Elementi (Dio guardi) questi
feriscono nella parte più sensitiva l’ambizione; Parlo adesso di chi presume
di fare il Legislatore nell’Arte più finita del Canto.
E ci meraviglieremo se il buon gusto si perde e se la Professione va in
precipizio? Sì dannosa temerità regna egualmente in chi aprendo la bocca
pensa di cantare, come ne’ Sonatori più infimi. I quali benché non abbiano
saputo, né cantato mai, pretendono di perfezionare, non che d’istruire, e
trovano dei goffi che se ne lusingano.
Gli Strumentisti poi di credito s’immaginano, che i bellissimi Passi delle
loro dita facciano per la voce il medesimo effetto, e non son più quelli. Io
sarei forse il primo a condannare il troppo ardire di questa sindicatrice
libertà se fosse diretta ad offendere que’ Cantanti, e Sonatori degnissimi,
che sanno cantare ed insegnare; Ma la lascio correre, perché la sua
intenzione se ne va direttamente a correggere la petulanza di chi non è
capace con quelle poche parole – Age quod agis – che dicono a chi non
intende il latino; “Tu studia di solfeggiare, e tu di sonare il tuo
Strumento”.
Se talvolta succede, che un cattivo Istruttore faccia un ottimo Allievo,
allora gli è incontrastabile, che il dono naturale di chi studia sia
maggiore della insufficienza di chi insegna, e non è da stupirsene, perché
se di tempo in tempo non si superassero anche i migliori Maestri, le Arti
più belle sarebbono già sepolte.
A molti parrà, che ogni perfetto Vocalista debba essere perfetto Insegnatore
ancora, e non è così, imperciocchè quel suo intendimento (quantunque grande)
è insussistente se non è accompagnato da una facile comunicativa, da un
metodo addossato all’abilità di chi cerca d’imparare, da qualche cognizione
di Contrappunto, dall’istruire in modo che non si conosca la lezione, e
dall’ingegnoso talento di scoprire il forte, e di coprire il debole di chi
canta, che sono i principali, e i più necessari insegnamenti. Un Maestro che
le suddette qualità possegga può insegnare. Con esse invita il desiderio
allo studio: Colle ragioni corregge gli errori: e cogli esempli incita il
gusto ad imitarlo.
Ei sa, che tanto dispiace la sterilità degli ornamenti quanto l’abbondanza,
non ignorando, che un Cantore fa languire col poco ed annoia col troppo;
Anzi di questi due difetti odierà più il primo, benché offenda meno, essendo
più facile il secondo ad emendarsi.
Non avrà stima alcuna di chi non ha migliore artificio, che i Passaggi di
grado, e dirà che abbellimenti di quella fatta, che con giusta comparazione
chiamansi Razzi, sono per i Principianti. Lo stesso sarà di chi pensa di far
isvenire gli Ascoltanti con una languidezza, passando di sua invenzione
dalla terza maggiore del Basso alla minore.
Dirà, che quel Cantante è fiacco, quando insegna in Teatro di sera in sera
tutte le sue Arie all’Udienza, che per sentirle sempre senza la minima
variazione non ha difficoltà d’impararle a mente.
Lo spaventerà l’ardito coraggio di chi troppo s’ingolfa con poca pratica, e
meno studio di Nautica musicale, poiché all’oscurarsi dell’aria perde la
tramontana, e lontano dal Porto chiede aiuto per salvarsi, correndo
grandissimo pericolo di naufragare se non è soccorso.
Non loderà chi presume di cantar due terzi d’Opera da sé con ferma promessa
di non istufar mai, come se gli fosse concesso quaggiù il privilegio divino
di piacere sempre. Quello non sa i primi principi della canora politica, ma
glie l’insegnerà il tempo. Chi canta poco, e bene, canta benissimo.
Si riderà di chi s’immagina di soddisfare il pubblico con la magnificenza
dell’abito, senza riflettere, che la pompa ingrandisce egualmente il merito,
e l’ignoranza. I Vocalisti, che non han altro, che la facciata, pagano agli
occhi quel debito, che contrassero coll’orecchio.
Non sentirà senza nausea l’inventato stile emetico di chi canta a onda di
Mare provocando le note innocenti con villane spinte di voce; Difetto
disgustoso, e incivile, però essendo venuto anch’esso di là da Monti passa
per rarità moderna.
Si stupirà del Secolo incantato in cui molti, e molte si fanno pagare bene
per cantar male. Se la Moda avesse buona memoria non avrebbe forse piacere
di ricordarsi, che vent’anni sono chi cantava mediocremente rappresentava
su’ Teatri di secondo rango un misero Personaggio, e in oggi gl’imboccati
come i Pappagalli teorizzano su i primi.
Biasimerà assai più l’ignoranza negli Uomini per l’obbligo, che hanno di
studiare più delle Donne. Non soffrirà chi a distruzione del Tempo cerca
d’imitarle per acquistarsi il nome di Moderno.
Si meraviglierà di quel Cantore, che avendo una profonda intelligenza del
Tempo non sa poi servirsene per non essersi applicato mai allo studio di
comporre, né d’accompagnarsi.
L’inganno gli fa credere, che per essere Uomo grande il cantar franco basti,
e non si avvede, che la maggior difficultà, e tutta la bellezza della
Professione consiste in ciò che ignora; Gli manca quell’arte, che insegna di
guadagnare il Tempo per saperlo perdere, che è un frutto del Contrappunto,
ma non così saporito come quello di saperlo perdere per ricuperarlo:
Produzione ingegnosa di chi intende la composizione, e di chi ha miglior
gusto.
Gli dispiacerà l’imprudenza di chi fa tradurre in latino le parole dell’Aria
più lubriche del Teatro per cantare l’istessa Musica con applauso in Chiesa,
come se tra l’uno e l’altro stile non vi fosse differenza alcuna, e
convenissero a Dio gli avanzi delle Scene: Cosa non dirà egli di chi ha
trovato l’artificio prodigioso di cantar come i grilli? Chi si sarebbe mai
sognato prima della Moda, che dieci o dodici crome in fila si potessero
tritolare a una a una con un certo tremor di voce, che passa da poco tempo
in qua sotto nome di Mordente fresco?
Più forte impulso però lo sforzerà a detestar l’invenzione di rider
cantando, o di cantar come le galline quando han fatto l’uovo. Vi saranno
altri animalucci degni d’esser imitati per metter sempre più in ridicolo la
Professione?
Disapproverà il malizioso ripiego d’un accreditato Vocalista, allorché in
Teatro parla, o ride co’ suoi Compagni per far credere al pubblico, che non
è degno della sua attenzione uno, o una, che comincia a prodursi, e che sta
cantando la sua prima Aria di cui però ne teme, o ne invidia gli applausi.
Non potrà tollerare la vanità di quel Cantante, che pieno di sé stesso per
quel poco che imparò, s’ascolta con tanto diletto, come se andasse in
estasi. Idolatra di sé medesimo, e tiranno d’intenzione con tutto il genere
umano pretende di impor silenzio, e maraviglia, e che la sua prima nota dica
all’udienza Ascolta e muori; Questa, che vuol vivere senza curarsi di
sentirlo, parla forte, e forse poco ben di lui. Cresce intanto alla seconda
Aria il tumulto, che finalmente diventando maggiore alla terza ei se lo
figura un torto manifesto, e invece di castigar la sua mal concepita
ostentazione collo studio maledice il gusto depravato di quella Nazione, che
non lo stima, e minacciandola di non tornarvi mai più, l’orgoglioso se ne
consola.
Si burlerà di chi non vuol recitare se non sceglie il libretto, e il
Compositore a suo piacere, colla condizione ancora di non cantar mai in
compagnia del tale, né senza la quale.
Con simile derisione osserverà cert’altri, che con una umiltà peggior della
superbia vanno di palchetto in palchetto raccogliendo le lodi più illustri
sotto pretesto di profondo ossequio, e la sera seguente diventano più
famigliari, che l’Epistole di Cicerone. L’umiltà, e la modestia sono le più
belle virtù dell’animo, ma però se non sono accompagnate da un po’ di decoro
si assomigliano all’ipocrisia.
Non formerà gran concetto di chi non si contenta della Parte, e non l’impara
mai: Di chi non canta senza inchiudere in ogni Opera un’Aria che porta
sempre in tasca. Di chi regala al Maestro per aver un’Aria, composta per un
altro: Di chi studia una quantità di cose inutili, e trascura le più
importanti: Di chi a forza di raccomandazioni ingiuste si fa burlar col
Protettore: Di chi non distende la voce in odio del patetico: Di chi galoppa
per seguir la Moda: E di tutti i più cattivi Vocalisti, perché son quagli
appunto, che la corteggiano (non conoscendo il forte) per impararne il
debole.
Non troverà in somma degno di merito, che quel Cantore corretto, che
eseguisce con abbondanza di ripieghi particolari ciò, che gli detta
l’intelligenza all’improvviso, sapendo, che un Professore di primo grido non
può (benché volesse) replicar un’Aria cogli stessi Passi. Chi canta
premeditato già studiò la sua lezione a Casa.
Dopo di aver emendati diversi altri abusi, e difetti in vantaggio di chi
canta, egli ritornerà con più forti ragioni a persuaderlo di ricorrere alle
regole fondamentali, acciò gl’insegnino d’operare sul Basso andando con
sicuri, e misurati passi da un intervallo all’altro senza timor di cadere.
Se poi il Cantante gli dicesse: Signore voi vi affaticate indarno, la
cognizione degli errori non basta, ho bisogno d’altri documenti, che di
parole, e non so dove impararli or che l’Italia mi sambra scarsa di buoni
Istruttori; Allora stringendosi nelle spalle, più co’ sospiri, che colla
voce gli risponderà; Che se per l’avvenire i Vocalisti non bevessero la
Musica col latte, o non fossero innestati come i virgulti ei procuri
d’apprenderli da i migliori, che cantano (tra’ quali vi è sempre il più
cospicuo), osservando specialmente due Donne di merito superiore ad ogni
lode, che aiutano anch’esse a sostener in oggi con forza eguale, e con
differente stile la vacillante Professione, affinché dalla decadenza non
vada sì tosto in rovina. Una è inimitabile per privilegiato dono di cantare,
e d’incantar il Mondo con una prodigiosa facilità d’eseguire, e con un certo
brillante singolare, e gustoso che inventato (non so se dalla natura, o
dall’arte) piace in eccesso. La nobiltà del cantabile amoroso dell’altra
unita alla dolcezza d’una bellissima voce ad una perfetta intonazione, al
rigor di tempo, e alle produzioni pellegrine dell’ingegno sono doti così
particolari quanto difficili ad imitarsi. Il patetico di questa e l’allegro
di quella sono le qualità più mirabili sì nell’una che nell’altra. Che bel
misto si farebbe, se l’ottimo di queste due angeliche Creature potesse
unirsi in un oggetto solo!
Ma non perdiamo di vista il Maestro.
Questi intanto continuerà col suo zelo, e con evidenze infallibili a far
conoscere, che l’artificio d’un Professore non è mai più grato, che quando
inganna gli ascoltanti con dolcissime sorprese. Onde lo consiglierà di
ricorrere ad una simulata innocenza, che faccia credere, che tutto lo studio
in quella sua candida purità consista.
Allor poi che l’Udienza non spera di sentir altro (e per così dire)
s’addormenta, in quello stesso momento lo esorterà di svegliarla con un
Passo. Desta che sia, gli ordinerà di ritornare alla sua finta semplicità,
ancorché non sia più capace di deludere chi l’ode, poiché con impazienza
curiosa già aspetta il secondo, e di mano in mano gli altri.
Lo istruirà con un’ampia e necessaria descrizione della quantità e qualità
de’ Passi per provvederlo di lumi, e regole, e di profitto.
Qui dovrei inveire (non però quanto bastasse) contro l’infedeltà della mia
memoria, che non ha saputo conservare vive, come dovea, tutte quelle
preziose prerogative, che un Valentuomo simile mi scoprì ne’ Passi, e mi
riduce l’ingrata con sommo mio rammarico, e forse con pregiudizio altrui,
alla mortificazione di non poter pubblicare che queste poche che mi sono
restate impresse (misero avanzo) che anderò qui notando.
De’ passi
Essendo il Passo il più lodevole parto di chi sa
cantare, e la delizia più cara di chi lo conosce, è d’uopo, che la mente
d’un Cantore sia tutta intenta ad imparare l’arte di produrlo. Sappia, che
cinque sono le qualità principali, che unite insieme lo formano mirabilmente
perfetto, e sono Intelligenza, Invenzione, Tempo, Artificio, e Gusto.
Cinque sono parimenti le grazie subalterne disposte per adornarlo, cioè
Appoggiatura, Trillo, Portamento di Voce, Scivolo, e Strascino.
LE QUALITÀ PRINCIPALI INSEGNANO:
Che il Passo non può concepirsi, che da una profonda Intelligenza. Che nasce
dalla rara, e singolar Invenzione della bellezza del pensiero, allorché si
allontana da ciò, che è famigliare, e comune.
Che ammaestrato da rigorosi, ma degni precetti del Tempo non può uscir mai
dalle sue regolate misure senza perdere la propria estimazione.
Che guidato dal più finito Artificio sul Basso, ivi (e non altrove) ei trova
il suo centro; ivi scherza con diletto, e inaspettato innamora.
Che non è concesso che alla esquisitezza del Gusto più fino il piacere
immenso d’accompagnarlo sempre con quel soave Portamento di voce, che
incanta.
DALLE QUALITÀ ACCESSORIE S’IMPARA:
Che il Passo sia facile in apparenza, acciò universalmente alletti.
Che sia difficile in sostanza, affinché si ammiri l’intendimento
dell’Inventore.
Che sia ugualmente eseguito dall’espressiva delle parole, che dall’arte.
Che sia scivolato, o strascinato nel patetico, perché faccia miglior
effetto, che battuto.
Che non sia conosciuto per istudiato se pretende di non esser negletto.
Che sia raddolcito col piano nel patetico, e sarà più gustoso.
Che nell’allegro sia accompagnato talvolta dal forte, e dal piano così, che
venga a formar una specie di chiaroscuro.
Che sia ristretto in poche note aggruppate, acciocché piaccia più che
vagante.
Che in sito spazioso di tempo sia propagato in molti (se lo consente il
Basso) con obbligo al Cantore di sostenere l’impegno del primo motivo,
affinché la sua capacità sia palese.
Che sia ben situato, altramente fuor dal suo nicchio disgusta.
Che sia piuttosto lontano dagli altri Passi che vicino, se vuol esser
distinto.
Che sia prodotto più dal cuore, che dalla voce per insinuarsi più facilmente
nell’interno.
Che non sia eseguito su la seconda, e quarta vocale quando vanno pronunciate
strette, e molto meno sulla terza, e quinta.
Che non sia copiato se non vuole essere difforme.
Che sia rubato sul Tempo acciò diletti l’anima.
Che non sia replicato mai nel medesimo luogo, particolarmente nell’Arie
patetiche, poiché sono le più osservate dagl’intendenti.
E soprattutto, che sia migliorato, e non deteriorato nel cambio.
Molti Professori sono d’opinione, che nel numero de’ Passi non vi sia luogo
per il Passaggio battuto, se non fosse in compagnia di qualcheduno de’
suddetti abbellimenti; o interrotto da Sincope, o da diversi altri gustosi
accidenti.
Ma è ormai tempo, che si parli della bellezza dello strascino, che se’l
patetico tornasse al Mondo, un Cantore sappia conoscerlo. La spiegazione
sarebbe più facile a capirsi dalla Musica, che dalle parole se lo Stampatore
non avesse molta difficoltà d’imprimere poche note; Nulladimeno cercherò
alla meglio che posso, di farmi intendere.
Quando sul movimento eguale d’un Basso, che lento cammini di croma in croma
un Vocalista mette la prima voce sugli acuti strascinandola dolcemente al
grave col forte, e col piano quasi sempre di grado con disuguaglianza di
moto, cioè fermandosi più su qualche corda di mezzo, che su quelle che
principiano, o finiscono lo strascino, ogni buon Musico crede per
indubitato, che nell’arte migliore del Canto non vi sia invenzione, né
studio più atto a toccar il cuore di questo, purchè sia però formato dalla
intelligenza, e dal Portamento di voce sul Tempo, e sul Basso.
Chi ha maggior dilatazione di corde ha più vantaggio, poiché questo vago
ornamento tanto più è mirabile quanto più grande è la sua caduta. In bocca
d’un famoso Soprano, che se ne serva di rado diventa un prodigio; ma se
tanto piace allorché discende, altrettanto dispiacerebbe ascendendo.
Intendeste, o direttissimi Cantanti, che studiate?
Questa, a un di presso, era la scuola di que’ Professori che per ischerno
gl’inetti chiamano Antichi. Osservatene esattamente le leggi, disaminatene
con rigore i precetti, e se la prevenzione non v’ingombra l’intelletto
vedrete, ch’ella insegnava di intonare, di metter la voce, di far sentire le
parole, d’esprimere, di recitare, di eseguir sul Tempo, di variar sul moto,
di comporre, e di studiare il patetico ove solo trionfa il gusto, e
l’intelligenza; Mettetela in confronto con la vostra, e quando i dogmi della
suddetta non bastassero ad istruirvi, imparate dalla Moderna il resto.
Se poi le mie esortazioni, legittime figlie del zelo, non avessero appresso
di voi credito alcuno sul riflesso, che i consigli degli inferiori non si
ascoltano, sappiate, che chi ha facoltà di pensare, può una volta in
sessant’anni pensar bene. E quando mai v’immaginaste, che fossero troppo
parziali de’ tempi andati, allora (purchè non vi tremasse la mano) vi
persuaderei di pesare con giusta lance i vostri più rinomati Vocalisti (che
stimate moderni, e non lo sono che nelle cadenze) e disingannati scorgereste
in essi, invece d’affettazione, d’abusi, e d’errori, che cantano secondo
que’ forti insegnamenti, che guidano il diletto nel più interno dell’animo,
e che il mio cuor pensava d’aver già messo nel numero delle sue felici
memorie. Consultateli come ho fatto io, e colla verità sul labbro
apertamente vi diranno, che vendono le loro gioie dove son conosciute: Che
la Moda non è fra gli Uomini distinti; E che in oggi si canta male.
Pochi sì, ma degnissimi Cantori abbiamo anche adesso i quali, passato che
sia il bollore della loro gioventù, insegneranno per obbligo di conservare
alla bella Professione il suo splendore, e per lasciare a’ posteri
un’eterna, e gloriosa fama delle loro fatiche. Io ve li mostro a dito,
affinché errando non vi manchi, né modo di correggervi, né fortuna di
sentire in ogni lezione un’Oracolo.
Dal che ho giusto motivo di sperare, che il vero buon gusto nel Canto non
debba finir che col Mondo.
Chiunque arriva a comprendere ciò, che gli è stato da questo, e da molt’altre
Osservazioni dimostrato non ha più bisogno di stimolo per istudiare.
Sollecitato dal desiderio corre all’amato Strumento, indi a forza
d’applicazione capisce, che di tutto quello, che imparò non ha ragione di
soddisfarsi. Fa nuove scoperte inventando Passi, fra’ quali dopo severe, e
ben ponderate comparazioni sceglie il migliore, di cui se ne compiace finchè
per tale lo considera; ma va tanto raffinando l’ingegno, che ne trova
diversi sempre più meritevoli del suo affetto, e della sua stima; Passa da
questi, in conclusione, ad un numero poco men che infinito di Passi mediante
i quali egli apre la mente in modo, che i tesori più reconditi
dell’artificio, e più lontani dalla sua immaginazione se gli presentano così
volontari, che se la superbia non lo acceca, se lo studio non lo annoia, e
se la memoria non lo tradisce, accrescerà ornamenti al Canto con un metodo
che sarà suo, che è l’unico oggetto di chi cerca i maggiori applausi.
Uditemi finalmente per vostro profitto, o giovani Cantanti. Gli abusi, i
difetti, e gli errori da me divolgati in queste Osservazioni, e
ingiustamente addossati al moderno Stile erano quasi tutti miei, e perché
erano miei non era facile, che il potessi conoscere sul fior di quegli anni,
in cui la mia cieca opinione con tiranna potenza mi faceva credere d’essere
un Uomo insigne. In età poi matura il pigro disinganno arriva troppo tardi.
So d’aver cantato male, e piaccia a Dio ch’io non abbia scritto peggio; Ma
giacchè l’ignoranza mi serve di danno, e di pena, sia almeno d’esempio, e
d’emenda a chi pensa di cantar bene. Chi studia imiti l’Ape ingegnosa, che
da i fiori più grati ne sugge il miele. Da i nominati Antichi, e da i
creduti Moderni (già il dissi) v’è di che imparare. Basta trovare il fiore;
e saperlo ben distillare per ricavarne l’essenza.
I consigli più cordiali, e non meno profittevoli ch’io possa darvi sono
questi:
Sovvengavi di chi saggiamente disse, che il merito mediocre, che nasce è una
ecclisse, che non oscura che per pochi momenti il sublime, che s’invecchia,
e invecchiato non muore.
Aborrite gli esempli di chi odia la correzione, perché costei fa come il
lampo a chi cammina al buio, spaventa, ma fa lume.
E studiate negli errori altrui: Oh gran lezione! Costa poco, insegna molto,
da tutti s’impara, e il più ignorante è il più gran Maestro.
La Verità e le Rose hanno le spine,
Ma non si punge chi pel fior le coglie.
A cura di
Arsace
Con il contributo di
Artaserse, Casarini,
Farinello e Xenio