Giuliano Dami

(14 Settembre 1683 - 4 Aprile 1750)

Aiutante da Camera del Granduca Gian Gastone de' Medici

 

Premessa

Nella realizzazione dei siti dedicati ad Handel, abbiamo pensato sempre che fosse necessario in qualche modo collocare il Nostro all'interno dell'epoca in cui viveva, che tra le altre cose è divenuto un nostro obiettivo: ossia cercare di portare in scena - e ce ne vorrà ancora di tempo - il periodo Barocco. Ecco quindi che si è partiti con delle digressioni non solo sui cantanti, che non solo ebbero modo di cantare per Handel, ma anche che vissero nel periodo più o meno adiacente al Caro Sassone; ecco quindi la presentazione della Marea immensa dei compositori... poi teatri, poi scenografie, poi Personalità.... ecco ed è su questo punto che nell'approfondire alcune di queste mi sono imbattuto in questo nome: Giuliano Dami. Cosa ha a che fare con Handel?

Staremo a vedere... non ho ancora finito di leggere tutto, sono solo agli inizi, ma una cosa è certa, dalla nostra biografia su Handel - ANNI DELLA GIOVENTU' leggiamo:

 ....."Nell'agosto del 1706 avvenne un altro cambiamento radicale nella vita di Handel: in seguito all'insuccesso di Nero, sentì l'urgenza di una svolta e partì per un grand tour in l'Italia, accogliendo l'invito di Gian Gastone de' Medici, figlio del granduca di Toscana conosciuto ad Amburgo, con la speranza di trovare condizioni lavorative più favorevoli e con l'obiettivo di migliorare la sua arte, studiando "sul campo" non solo la tecnica del Bel Canto, ma tutti i nuovi generi musicali che facevano dell'Italia un faro per tutti i compositori, specialmente per quelli di area tedesca".......

 Ecco appunto Gian Gastone de Medici: ebbene Giuliano Dami era il Valletto da camera di questo Granduca, e deve averne fatte di bassezze se, a consultare un "Dizionario geografico fisico storico della Toscana" di Emanuele Repetti, alla voce "Mercatale di Campoli" si può leggere:

"Mercatale borgo con vicino castellare attraversato dalla strada che da san Casciano guida a greve nella parrocchia di S. Maria in Mercatale.... Mercatale che ha il tristo merito di esser stato patria di colui che fu il vile Sejano del Granduca Gian Gastone".

Colpisce che questo Repetti che descrive in modo oggettivo Mercatale, da un punto di vista descritivo/geografico" indugi poi nel ricordare un personaggio che lì nacque, dipingendolo come un mostro.

Cosa mai avrà combinato?

Ecco quindi la curiosità, l'attinenza con Handel (che credo debba averlo visto nel 1706 alla corte del Granduca) e soprattutto con una Firenze della fine 1600, inizi 1700, gli intrighi, i colori, i profumi e gli odori, gli scandali, gli assassini..... Di soli due anni più vecchio di Handel (Giuliano Dami nacque il 14 Settembre 1683), e morto solo 9 anni prima (il 4 Aprile 1750): pieno Barocco quindi....

(*) : Legenda: i nomi dei personaggi del racconto sono evidenziati in blu, se vi è una immagine, allora sono posti in blu grassetto. Le parole "storiche" dei coevi, vengono riportate in rosse seppia. Date e luoghi saranno poste, se importanti, in neretto.Alcune digressioni aneddottistiche sui personaggi in blu scuro.

 

 

Giuliano Dami

 

L'inizio 

Il 14 Settembre 1683 Giuliano Dami venne alla luce nel paese di Mercatale: nel registro della Pieve, da Angiolo Dami (che morì di idropisia il 17 Aprile 1693 all’età di 54 anni circa) e da Caterina Ambrogi. Secondo un anonimo cronista del tempo, la famiglia di Giuliano Dami viene presentata come di miserrime condizioni, dal momento che il padre faceva il contadino e la madre oltre alle faccende di casa andava a raccoglier legna e erba per aiutare la famiglia.

Il Padre Agnolo Dami non doveva poi essere in così disastrose situazioni economiche se come si legge nei registri delle pievi venne sepolto in una tomba di sua proprietà: di solito i nullatenenti a tempo venivano sepolti in una fossa comune: avere una tomba propria era indice quindi di una situazione economica non troppo povera.

La madre di Giuliano non viene trovata nei documenti come soggetto principale, ma sono in collegamento al nome del marito o del figlio, e quindi scarse sono le notizie sia della vita come della nascita e morte.

Nel 1693, come suddetto, Caterina rimase vedova, si ritrovava con una famiglia composta da: Giuliano, due sorelle (Maria, una terza sorella era morta a tre anni nel 1688) Maria Maddalena (nata 1688) e Anna Maria (nata 1690), e un ultimo genito nato dopo la morte del padre, nato l’8 giugno 1693, che prese il nome  di Angelo in onore del padre defunto.

Angelo viene descritto dallo stesso cronista come un tartassato dal destino: egli venne affidato allo Spedale degli innocenti: aveva un carattere difficilmente amabile, era balbuziente e pure zoppo. Nei registri consultati dall’autore del libro biografia, ricchissimo per altro di una sezione piena di documenti storici riportati, Bruschi, non appare traccia di una assunzione del piccolo Angelo Dami in questo Spedale, quindi le uniche notizie che si hanno è di questo cronista dell’epoca.

I compagni di lavoro di Angelo Dami, lo avevano soprannominato “montino”: egli era sguattero nelle regie cucine, e quindi il soprannome potrebbe associarsi a qualcosa legato al montare le uova o il burro o altro. E’ anche vero che però il soprannome potrebbe associarsi al diminutivo di montone: montone è un appellativo per indicare una persona sciocca, rozza e caparbia. Oppure “montino” potrebbe esser legato ad una persona legata ai piaceri del sesso, o ad un personaggio che era soleto ad esagerare coi suoi racconti. Per quanto scapestrato possa apparire Angelo Dami, è da considerarsi un Angelo nel senso stretto della parola rispetto all’efebo fratello Giuliano.

Firenze di fine Seicento

La Firenze di fine Seicento, che sarà il teatro della vita di Giuliano Dami, non è più la fiorente città che era nel corso del Rinascimento: non ci sono più intensi traffici commerciali, attivi opifici, tintorie, fabbriche di pannilani….

A fine Seicento, Firenze è una città parassita che vive adagiata sul lavoro del contado, con annoiate attività produttive, e con una classe dominante che vegeta sulle ricchezze accumulate dalle generazioni precedenti.

La più antica aristocrazia fiorentina, quella di spregiudicati mercanti e banchieri, che fece la grandezza di Firenze, a fine Seicento è spenta ed improduttiva: l’apatia governa la vita di questi nobili che trascorrono la vita, come riporta un cronista francese coevo, fra la tavola, il vino, il caffè, il gioco, le conversazioni, le cicisbeanerie, le donne e le canterine.

Firenze, sotto il dominio di Cosimo III però ha alcune attività che sono trainanti nell’economia: si tratta della produzione di apparati ed arredi liturgici, accessori sacri e paramenti… la costruzione di chiese, conventi, cappelle, sepolcri sono tutte attività prolifiche in questo periodo proprio perché legate alla religiosità.

Questo anche per il fatto che Cosimo III era un facoltoso bigotto, e questo comportò un accrescimento nel numero di prelati, tutti ospiti nella ristretta Reggia Granducale.

Tutta la famiglia Medicea del tempo era molto particolare: Cosimo III° come anzidetto era animato dal fervore religioso, ma non era nulla in confronto all’intensità di devozione religiosa della madre la Granduchessa Vittoria della Rovere, qui a destra nei panni di Flora, che era una burbera ed autoritaria donna, vera depositaria del potere in Toscana dopo la morte del marito Ferdinando II°.

Non meno religiosa era la Gran Principessa Violante Beatrice di Baviera, che abbracciò la fede per compensare le delusioni matrimoniali del Gran Principe Ferdinando, primogenito di Cosimo III°.

 

 

Il dipinto della famiglia regnante in Toscana non sarebbe completo senza la secondogenita di Cosimo III°, Anna Maria Luisa, qui sotto a sinistra,che se non fosse andata in sposa all’Elettore Palatino Johann Wilhelm, avrebbe trasformato la corte Medicea in un vero convento. In questa panoramica manca Gian Gastone de Medici, qui a destra, l’ultimo, il cadetto che era sicuramente il meno amato della famiglia e destinato alla carriera ecclesiastica, sebbene totalmente avulso da vocazioni religiose.

La città era un miraggio, perché era vista come luogo dove si poteva avere pane e lavoro per tutti, ed anche per chi era toccato dalla fortuna, anche il luogo ove si poteva tentare una scalata sociale.

La Corte dei Medici in Firenze poi rappresentava la massima aspirazione molto più che una semplice di qualche illustre casato della capitale Toscana.

Da ricordare inoltre il fratello di Cosimo III°, il Cardinale Francesco Maria, l’unico effettivo membro appartenente al clero,che però era assolutamente il meno religioso, in piena repulsione ad incastrare la propria vita con le litanie. Era mondano e gaudente e per questo si tenne ben lontano dalla Corte fiorentina, prediligendo la splendida Villa di Lappeggi, eden per svaghi ed ozi, circondato da musici e poeti.

La famiglia Dami, dopo la morte del capofamiglia, ebbe come unico aiuto non tanto quello dei vicini, cosa che palesa una famiglia chiusa in se stessa e poco incline ai buoni rapporti di vicinato, ma dallo zio paterno Pietro, al tempo circa sessantenne. Costui, dopo aver abbandonato al proprio destino il resto della famiglia, assieme a Giuliano, si trasferì a Firenze. Poi però lo zio, non riuscendo a mantenere Giuliano, dopo che ebbe trovato impiego presso il monastero dei Reverendi monaci di Badia di Firenze, era conveniente per Giuliano lasciarlo per andare a servizio del Cavaliere Lanzoni a Marignolle.

La vita di Giuliano si svolse in questo periodo senza particolari sorprese o cambiamenti degni di note: si tratta di una vita simile ad un qualunque ragazzetto di campagna, arrivato nei pressi della città. Giuliano in sostanza è a servizio di un contadino, che a sua volta era servitore del Cavaliere Lenzoni, con terre a Marignolle. Giuliano aveva le mansioni di recarsi in città quotidianamente con un asino e raccogliere le immondizie dell’Urbe e svuotare i pozzi neri. La sporcizia in Firenze regnava sovrana: non si era consci al tempo che le condizioni igieniche erano legate alla salute pubblica: acqua  sapone erano rari, quindi pulci, pidocchi e altri parassiti condividevano le parrucche del Granduca come le teste dei bimbi. I più miserabili potevano contare sugli “Spedali” che però erano temuti in quanto erano visti come luoghi in cui si moriva infelicemente….
In questo putrido panorama generalizzato, si sentiva però chiara l’esigenza di smaltire i rifiuti organi, proprio per eliminare soprattutto il tanfo degli escrementi: i pozzi neri nel Medioevo erano visti come la soluzione al problema, tuttavia spesso essi erano vicini ai pozzi d’acqua e quando straripavano si mescolavano con essa, cosa che finiva col far nascere delle malattie. Ne primi lustri del Seicento quindi l’opera di svuotamento dei pozzi neri quindi era vista come una operazione necessaria: ecco l’utilità dei “vuotapozzi”: certo in queste operazioni si doveva distinguere i rifiuti “solidi” da quelli liquidi: i primi infatti potevano servire come concime per i contadini: il liquame invece per prassi finiva nell’Arno, congiungendosi on i veleni della conciatura delle pelli, delle tinteggiature, dei beccai e ad altro sudiciumi immesso dagli altri mestieri.

Nel Seicento chi indossava la livrea verde era sempre associato a svuotare il pitale nei palazzi della corte Granducale.

Dunque Giuliano fu vuotapozzi appena giunto a Firenze, quindi riveste un incarico infimo nella scala sociale, ma questa esperienza gli servì per conoscere ogni via di Firenze, dove ebbe modo di svolgere il suo lavoro.

Giuliano non restò per molto tempo a servizio i uno stesso padrone: prima da un prete miserabile, poi il Monsù (titolo per indicare uno appartenente alla nobiltà transalpina) Beroardo Francese dalle Rovinate: dopo molti mesi si spostò al servizio del cancelliere Fabbrini di Castelfiorentino, e poi fu agli ordini di Balì Lenzoni da Santa Croce per tre anni.

In questo periodo molti erano i garzoni che finivano sotto servizio di ecclesiastici, pagati molto poco, con un tozzo di pane e con una buona dose di bastonate: ed ad ogni minimo cenno di ribellione si riservava un bel calcio di benservito.

Questi frequenti cambiamenti di dominus da parte di Giuliano fa intravedere un carattere insofferente ai soprusi: Giuliano non era disposto a sopportare sempre ogni genere di soprusi. Mentre era a servizio del nobile Lenzoni, che era residente vicino al magnifico palazzo Capponi, Giuliano viene avvicinato dalla Buona Sorte. Infatti il Marchese Ferdinando Capponi nel Fondaccio di Santo Spirito finì per ottenere Giuliano quale lacchè: fu il momento in cui Giuliano ebbe modo di indossare all’Ussara.

Quando entrò a servizio del Marchese Capponi (dalle documentazioni risulta nel 1703, all’età di 21 anni), Giuliano era già forgiato ed in grado di poter sperimentare la sua grande capacità di adattamento. Inoltre poteva contare della sua giovinezza con un corpo sviluppato in una singolare bellezza.  Efebo, gentil che nascondeva un animo di ferro, Giuliano era per i più agile come un gatto ed acuto come un furetto. L’esperienza che si era fatto gli aveva ben insegnato che l’intransigenza e lo spirito di ribellione non erano gli strumenti adatti per ottenere credito presso i propri padroni. Giuliano era ben determinato a fuggire la miseria  la fama ad ogni costo, anche se era ben conscio che questo fin avrebbe giustificato ogni mezzo: lusinghe ed adulazioni, ecco i mezzi per adire ad una strada in ascesa! Inoltre Giuliano era ben conscio che un corpo ben fatto di un ragazzo era graditissimo ad un grassoccio gentiluomo o ad una svenevole dama….. Al suo paese natale il suo volto segnato dai tratti femminei era di certo oggetto di canzonature, ma non nei salotti che iniziò a frequentare in qualità del suo nuovo status, dove gli apprezzamenti, spesso ambigui, espliciti e grevi evidenziavano una legge di natura: la bellezza era il vero lasciapassare per ricchezza e potere.

Il Marchese Ferdinando Capponi trascorreva una inutile esistenza fra un invito a Corte, un funerale solenne, un gran ballo o una battuta di caccia, tra una parata militare e una adunanza accademica: una vita monotona, di certo non rallegrata dal matrimonio, che non riusciva a produrre nessun erede maschio. Narcisista ed intransigente, scrupoloso nell’osservare i protocolli ed assolutamente incapace di lasciarsi far mettere in piedi in testa: ecco il ritratto del nuovo padrone di Giuliano Dami.

Il carattere di Ferdinando Capponi ebbe modo di manifestarsi in un avvenimento che finì pure nei memoriali dell’epoca: il 17 febbraio 1685, durante una festa da ballo promossa dai marchesi Conti in onore del Gran Principe Ferdinando de Medici, il marchese Capponi ottenne il titolo di Maestro di Sala: tutto era perfetto, se non chè mentre riaccompagnava una dama al divano, scorse che al suo posto si era seduto Lord Carlo Dudley, un anziano sessantenne gentiluomo inglese. Ne uscì per l’indebita appropriazione una alterco verbale molto aspro, quando ad un bel momento Lord Dudley mise la mano sul taschino, posto dove convenzionalmente si teneva la pistola; intendendo quello che il Lord avrebbe potuto fare, il marchese Ferdinando si gettò sull’avversario, e pochi astanti si resero conto che la lite verbale si era trasformata in un corpo a corpo, poiché gli altri, applaudendo, pensarono fosse una forma di rappacificamento con quell’abbraccio: niente di più lontano dalla realtà. Fu un pandemonio: lo stesso Gran Principe Ferdinando de Medici dovette intervenire per placare la situazione, intimando a Lord Dudley di ritirarsi presso i propri alloggi.

Fu tutto un spettegolare sull’accaduto, che giunse alle orecchie dello stesso Granduca Cosimo III° che era in trasferta a Pisa; egli volle che lo stesso Gran Principe Ferdinando fosse paciere nella situazione di tensione fra i due nobiluomini: ma egli incaricò il Sergente Maggiore Bracciolini a pacificare tutti: Lord Dudley non volle saperne, nemmeno sotto la minaccia di una bella espulsione dagli stati della Toscana: solamente il ventilare un suo arresto per disobbedienza verso il sovrano lo persuase ad incontrare il marchese Capponi ed abbracciarlo in segno di pacificazione nella Chiesa di Santo Stefano fra le approvazioni generali.

Giuliano in casa Capponi ebbe l’abilità di comprendere i pregi, i difetti e le esigenze del Marchese Ferdinando, e questo gli permise ben presto di poter adire alla frequentazione di Palazzo Pitti. Oramai Giuliano aveva smesso gli abiti cenciosi: ora era in vestito di velluto rosso coi galloni d’oro: niente più stracci! Anche nella categoria dei servitori di un padrone esisteva una gerarchia: il grado più levato era quello di lacchè del proprio padrone, quello più vicino al padrone, capace di intendere i suoi desideri e realizzarli, impartendo ordini agli altri servitori. Naturalmente il ruolo di lacchè non era quello di un semplice servo quindi: si dovevano conoscere bene i modi compiti, i cerimoniali, le virtù e i limiti del proprio signore: si doveva curare l’aspetto: ecco che al lacchè era concesso di indossare la gallonata livrea all’ussara. Giuliano riuscì bene in questo ruolo, abbandonando i modi rozzi, facendo tesoro delle esperienze di lavoro passate, dove aveva avuto modo, benchè occupante i ranghi più bassi della servitù, di osservare i modi e gli atteggiamenti dei lacchè.

Un proverbio del settecento esordisce con “in minaccioso aspetto, s’asconde sotto queste vaghe forme, lo spirito maligno ed il folletto”.

Gian Gastone de Medici dunque, notò Giuliano ogniqualvolta il Marchese Capponi lo portava a suo seguito a Palazzo Pitti, ed affascinato dalla sua bellezza lo volle come valletto, dopo che Giuliano aveva saputo incantare anche con una compostezza ed un incedere flessuoso, dispensando a destra e a manca sorrisi incantevoli e composti.

Il nuovo padrone di Giuliano è Gian Gastone de Medici (a destra in un ritratto): è un principe giovane in quanto era nato il 25 Maggio 1671, figlio di Cosimo III° e di Margherita Luisa d’Orleans: educato secondo pii principi, nella tenera età era timorato di Dio, ed ebbe buona predisposizione per le Scienze e nelle belle lettere e filosofie e matematiche, contando uno stuolo di precettori degni di molta considerazione. 

Abile linguista, conosceva perfettamente l’inglese, il francese, il tedesco, il boemo e lo spagnolo. Si dilettava di musica così come delle arti cavalleresche, adorava il disegno: sapeva suonare il flauto. Tuttavia questo è solo un quadro iniziale del giovane principe, in quanto la storia ce lo presenta, a differenza del cronista coevo che ci informa di queste lodevoli doti, come un personaggio decadente.

Cosimo III° era ossessionato dal fine di voler maritare i suoi figli alle più prestigiose casate europee, e in questo scopo era pure riuscito, solo che i matrimoni non davano buoni frutti: nessuno dei figli aveva eredi.

Il matrimonio fra il Gran Principe Ferdinando e Violante Beatrice di Baviera era una delle cause di cruccio per il Granduca, così come per la sposa che era afflitta dalle numerose scappatelle del marito.

La sua figlia Anna Maria Luisa de’ Medici invece si era unita con l’Elettore Palatino Johann Wilhelm di Neuburg: questo faceva avere un genero fratello della Regina del Portogallo, della Regina di Spagna e dell’Imperatore d’Austria in casa del Granduca: Cosimo III° ora si poteva fregiare del titolo di Altezza Reale, e non più solo “Sereno”, ma “Serenissimo”.

L’insoddisfazione però dello stato di affari matrimoniali arrivò a far coinvolgere pure il più piccolo Principe, Gian Gastone appunto, sebbene fosse l’ultima ruota del carro.

Fu così che Gian Gastone fu unito in matrimonio il 3 Luglio 1697 alla Principessa Anna Maria Francesca di Sassonia-Launenburg, recandosi in suolo tedesco. Tale principessa amministrava con lo stesso carattere di ferro, come erano soleti i suoi antenati, risiedendo nel suo castello preferito di Reichstadt, a 90 Km da Praga. La principessa era rimasta vedova e qui viveva con la compagnia della figlia, trastullandosi in una vita maschile e di gran rigore militare. Cavalli e cacce, stalle e scuderie: ecco le sue occupazioni: mai sarebbe andata a Firenze per seguire Gian Gastone. La dorata Reggia Pitti col giardino di Boboli infiorato sarebbero stati per lei tediosi e luoghi di inimmaginabili momenti di gran tedio: ecco quindi che fu Gian Gastone a doversi adattare al modus vivendi della consorte, cadendo sotto la sua suggestione: era una pesante catena che legava Gian Gastone ad una donna noiosa e grezza: secondo le descrizioni di un cronista del tempo, lei era 25-enne (era nata il 3 Giugno 1672), di sgradevole aspetto e con un corpo di gran mole, cosa che faceva da contrasto al principe Gian Gastone, gracilino con un volto grazioso. La vita in comune ebbe due regole dettate dalla consorte: condividere un solo talamo ed una sola carrozza: Anna Maria Francesca infatti voleva il marito sempre accanto. Ma ben presto Gian Gastone iniziò a stancarsi ed assunse un’aria melanconica, a cui doveva associarsi la noia del posto in cui era costretto a vivere: non riusciva ad adattarsi allo spirito di questo popolo boemo straniero, non provava alcun interesse per i loro costumi e non comprendeva i loro divertimenti, né tantomeno condivideva i loro interessi: slitte, ghiacci, tutte cose da montanari per il Principe. Il paese è freddo, e Gian Gastone inizia a bere e mangiare a dismisura, associandola all’unico passatempo possibile: il gioco d’azzardo: ecco la trasformazione lentamente per birra e vino ingrassò, come di pari passo aumentavano i debiti di gioco.

Gian Gastone però non riuscì a trovare conforto dedicandosi a tali distrazioni: aveva nostalgia della propria terra, e  cercava sempre di allontanarsi dal castello di Reichstadt e dalla moglie: stava nascendo un odio fra moglie e marito, quindi Gian Gastone trovò ogni pretesto per allontanarsi con molti viaggi, lontano dalla consorte: ma poi tornava e il dissidio con la moglie aumentava, tanto che nessuno dei due si fidava dell’altro. Gian Gastone arrivò a sospettare che la moglie cercasse di avvelenarlo. Queste fughe dalla moglie, videro anche una trasferta nel 1698 presso la sorella Anna Maria Luisa, presso Aix-la-Chapelle, dove si era ritirata per sottoporsi a profilassi per poter dare alla luce degli eredi robusti, dopo due gravidanze finite male. Ella lo accolse molto freddamente e in modo scortese, cosa che indusse Gian Gastone a ritornare presto a Parigi.

Ecco quindi che prostrarsi al Re Sole che, dopo averlo accolto con tutti gli onori dovuti, gli regalò una spada tempestata di gioielli e diamanti.

La madre Margherite-Louise d’Orléans (qui a sinistra in un ritratto ufficiale), che era fuggita dal marito e dalla corte austera di preti, anche abbandonando in tenera età i figli, non lo accolse bene: anche in questo caso una accoglienza gelida e sprezzante, proprio perché odiava i Medici e l’arrivo del figlio le fece ricordare un passato che cercava di cancellare dalla sua memoria. 

Gian Gastone sconsolato ritornò quindi dalla moglie, però passando per l’Olanda, cercando di ritardare sempre di più l’effettivo rientro, attanagliato dalla nostalgia della Città del Giglio.

Solo nel novembre 1698 tornò a Reichstadt dalla moglie, riempiendo tutti di felicità, dopo che era stato via per sette mesi. Noia e freddo: un tormento per Gian Gastone! Ricorse a Praga per dedicarsi ai giochi d’azzardo (in una lettera si viene a conoscenza che per far fronte agli usurai, Gian Gastone fu costretto ad impegnare dei gioielli della moglie, che, venutolo a sapere, si era rivolta alla legge); Anna Maria Francesca invece tendeva a non lasciare le sue terre.

Di questo periodo di lontananza dalla Toscana, esistono delle lettere dove Gian Gastone insofferente e curioso di tutto ciò che accade a Firenze: ogni epistola poi, ai rimproveri e prediche del padre Cosimo III per la sua vita lontano dal tetto coniugale e dedicata al vizio del gioco, è un pretesto per evidenziare gli incomodi del clima nordico alla sua salute (ed implicitamente un tentativo per preparare volendo il terreno per un rientro in Toscana), e le difficoltà incontrate con la moglie Anna Maria Francesca nel loro rapporto matrimoniale.

Ogni pretesto per rimanere lontano dalla moglie era strumentalizzato da Gian Gastone per recarsi a Lipsia e ad Amburgo (dove nel 1703 era andato per “ascoltarvi buona musica”). In realtà tutti questi soggiorni gli causarono rovinose perdite, avendo “buttato via quattrini”.

Ci sono delle testimonianze che affermano che Giuliano Dami fosse con Gian Gastone nel periodo boemo, invece la cosa è improbabile in quanto Giuliano aveva solo 14 anni in quel periodo, e poi di certo c’è il documento che comprova come egli fosse a servizio del marchese Capponi.

Fatto sta che stanco della vita boema, Gian Gastone torna nel 1705 a Firenze, accolto dalla famiglia granducale. Secondo un coevo, Gian Gastone si trattava come un forestiero, girando con solo 2 lacchè e se ne stava in disparte fino le sei. Dava anche preoccupazione i motti che gli uscivano dalla bocca, come quando recitò l’Ave Maria del Ceppo: “Ave Maria del Ceppo, l’Angelin’ mi rispose, Campiamo un poco, e vedrem di belle cose”.

Altro passatempo del periodo era di fissare le persone che passavano sotto le finestre del palazzo Granducale. Amava anche appostarsi su un posto di vedetta, sembrando un astrologo, interrogandosi sul futuro, e indugiando in profezie: un giorno vedendo passare in Piazza de Pitti un contadino che vendeva granate, lo chiamò a sé, acquistandole tutte, invitando a portarle alla Dispensa da parte sua e dicendo che fossero conservate, in quanto tra breve tempo sarebbero state necessarie per “spazzare gli Uffizi della Città di Firenze, e di fuori". Questo dimostra come Gian Gastone fosse ben cosciente della corruzione della corte del Granduca Cosimo III, suo padre, e di come era necessario fare pulizia di questo ambiente, zeppo di ecclesiastici, chiamati dal padre che era un fedele molto bigotto: Palazzo Pitti era tutto un gremire di prelati. Le incomprensioni col padre Cosimo, che finivano sempre più spesso in furibondi litigi, erano celate solo pin presenza delle grandi cerimonie pubbliche: altrimenti Gian Gastone si isolava e viveva praticamente da solitario, passando notti intere all’Isolotto, Alle Cascine o all’Argin’ grosso, lasciando anche in disparte Giuliano a far lunari… solo di giorno poi tornava a Firenze.

Nel 1707, Gian Gastone lascia Firenze per tornare dalla moglie, con Giuliano a suo seguito, che ora è divenuto oltre che lacchè anche suo amico: Giuliano, una oscura entità, celate sotto un viso angelico, un corpo ben fatto e dei modi armoniosi capaci di soggiogare col suo carisma….Scandali e discordie verranno impiantati al suo passare…

Giuliano aveva preso una familiarità col Principe , allettandolo con le sue bellezze, e con vezzi, “nei quali si era fatto come dice il proverbio Vecchia Puttana”: Giuliano ben accorgendosi dell’acredine e la repulsione che esisteva fra Gian Gastone e la moglie, decise lui di sostituirla: “che le subentrò in sua vece, e novello Seiano al moderno Tiberio gli procurava ancora di simili trastulli…”.

Giuliano sopperì al bisogno di affetto che aveva il Principe, sia a Firenze che nella corte Boema: si può pensare che inizialmente Giuliano provasse una affettuosa complicità con Gian Gastone: ma la presenza di Giuliano provocò nuovi scontri con la moglie, che teneva ben gli occhi aperti e si era resa ben conto dei loschi traffici che Giuliano procurava al marito. Era “suo Lacchè, promotore ed il mezzano dei suoi capricci…”.

In questo periodo si pensa che Giuliano fosse conscio della miniera d’oro che aveva trovato nell’amicizia del Principe, bastava solo insediarsi nel suo cuore ed il gioco era fatto. Siccome Gian Gastone in quel periodo era fragile, Giuliano, che amava "assaggiare" lui stesso alcune nuove conquiste prima di portarle al Principe, in questo periodo non ebbe freni nel condurre Gian Gastone dove meglio credeva, e il coevo racconta ancora:

“Essendo in Praga migliaia di scolari, e Boemi, e Tedeschi bellissimi Giovani, ma poveri in guisa, che ogni settimana in un determinato giorno vanno di porta in porta a domandare l’elemosina, per lo che Giuliano aveva campo a presentare al Principe sempre nuovi e bellissimi oggetti. Inoltre essendovi in Praga moltissime Case di Principi Grandi, e ricchissimi cavalieri vi è una infinità di Lacchè, gente bassa di lor famiglie, indusse Sua Altezza prendersi divertimento a quello simile, e mischiarsi fra loro, acciò facesse scelta di quelli oggetti, che gli piacevano, e bere, e mangiare con loro, e imbracarsi ancora, benché tal costume sia comune ancora con le genti di alto rango. Si diede a giocare ad ogni gioco, ed i Tedeschi, e tutte le nazioni Settentrionali hanno per massima il truffare, e il giocare di vantaggio sia cosa lecita, ed onesta, onde fece grandissime perdite, e il specie col Barone Cunex, che li guadagnò, e rubo sopra a 150.000 scudi, de quali ne pagò la metà, e l’altra tornato che fu a Firenze in più volte la sborsò al di lui fratello, anch’elli famoso giocatore.

Tutte queste ed infinite altre leggerezze erano note alla moglie, ed ella per lettera il tutto avvisava alla Sorella Principessa Elettrice, sua cognata, ed ella del continuo si prendeva la libertà di avvertirlo. Ma tutto invan, perché inebriato in tutte queste cose, che oramai avevano guidato il suo genio, non curava, e sprezzava i suoi avvertimenti: onde fu necessitata l’Elettrice, per benefizio di suo fratello a renderne inteso il Granduca Cosimo Padre, il quale in prima l’avvertì generalmente, dipoi divenne al particolare.

"Piccò tal cosa al Principe, avendo penetrato, che n’avesse avvisato il Granduca Padre, e rinforzò i divertimenti invece di diminuirli, o abbandonarli. I Cortigiani nobili ne sospiravano, ma in vano, siccome il Valdesi suo Cerusico, ed Aiutante di Camera uomo di garbo, e civile, e il Bartolozzi uomo da bene, civile e dotto, e costumato, e tutti assieme con garbo procuravano distorlo dall’intrapreso cammino, ma fu inutile ogni compenso, perché l’infermo giva peggiorando di giorno in giorno nella sua malattia.”

Ecco dunque l’unica soluzione: il rientro a Firenze poteva preservare il figlio Gian Gastone dalla malattia detta “male francese”, che già stava facendo morire il figlio Ferdinando e dalla possibilità di subire un agguato. Fu così che Cosimo III lo richiamò in Toscana.

Non bisogna infatti dimenticare che Gian Gastone corse più volte il pericolo di vita: il coevo scrive ancora:

“Corse più volte pericolo della vita, essendo travestito ove dimoravano i Lacchè, e Pistoni nelle taverne mezzi briachi, ove più volte seguirono risse, ed uccisioni, ed ebbe a rilevare della Pistolettate, e de colpi di Palosso, e di Sciabla, e quivi si assuefece a bevere strabocchevolmente pipando Tabacco, e mangiando Pepe lungo del Comino, e Pane per bevere alla Tedesca.

Corse più volte il pericolo della vita…..mischiatasi sempre fra i Lacchè, con Giuliano, giocando, e divertendosi fra loro: e ciò seguiva così spesso, che in bervelo resero penurioso in denaro, e con stratagemmi se ne ricavò assai oltre i consueti assegnamenti del Granduca Padre, ma la spesa era così grande, che non era bastante il rinforzo al mantenimento di tanti vizzi, e convenne procurare in prestanza da varj personaggi, che poi alla di lui presenza immediatamente furono rimborsati dal Granduca Padre”.

Né gli inviti di Cosimo III°, né l’intercessione dell’arcivescovo di Praga, né l’intervento Papale riuscì a smuovere la Principessa, consorte di Gian Gastone, nel seguire il marito in Toscana: un frate cappuccino le aveva ben resa edotta dei diabolici avvelenamenti che si erano perpetrati a casa Medici contro i personaggi poco graditi.

To be continued....