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Storia della mia Vita
Volume
I
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Capitolo
XI
Mio breve e movimentato soggiorno ad Ancona.
Cecilia, Marina, Bellino.
La schiava greca del lazzaretto.
Bellino si fa riconoscere
Arrivai ad Ancona il 25 febbraio del 1744 sul far e presi
alloggio nel migliore albergo. La camera mi piacque e, poiché avevo fame,
dissi all'oste che volevo mangiare di grasso. Egli mi rispose che in
Quaresima i cristiani mangiano di magro. Replicai che il papa mi aveva
dato il permesso di mangiare di grasso. L'oste mi disse di farglielo
vedere: gli risposi che me l'aveva dato verbalmente, ma quello si rifiutò
di credermi; gli detti dello stupido e allora lui mi disse di andare a
cercarmi alloggio altrove. Quest’ultima risposta, davvero inattesa, mi
fece andare in bestia. Imprecai e protestai, e chissà cosa non avrei fatto
se ad un certo punto non mi fosse comparso sbucando fuori da una camera
vicina, un signore dall’aspetto dignitoso e severo che prese a dirmi che
avevo torto a voler mangiare di grasso quando ad Ancona i cibi magri erano
molto migliori, che avevo torto di pretendere che l'oste credesse che
avevo il permesso del papa, che avevo torto, se davvero avevo il permesso,
di averlo chiesto alla mia età, che avevo torto di non essermelo fatto
mettere per iscritto, che avevo torto a dare dello stupido all’oste che
era padrone di non alloggiarmi e, infine, che avevo torto a fare tanto
baccano.
Questo tipo che veniva, non richiesto, a immischiarsi nelle mie faccende
e, tra l'altro, solo per addossarmi tutti i torti immaginabili, anziché
indispormi ulteriormente, mi mise di buon umore.
« Ammetto, signore » gli dissi « tutti i torti mi attribuisce. Ma piove,
ho una gran fame e non intendo uscire a quest'ora per andarmi a cercare
altro albergo. Perché non mi dà da mangiare lei, al posto dell'oste? »
« No, no! Sono un buon cattolico e osservo il digiuno. Andrò piuttosto a
calmare l'oste e vedrà che le servirà una buona cena, anche se di magro. »
Detto questo, scese dabbasso ed io, paragonar la sua calma alla mia
intemperanza, riconobbi che mi aveva dato una bella lezione. Dopo qualche
minuto, ritornò dicendomi che tutto era sistemato: mi avrebbero portato
una buona cena e, se volevo, lui mi avrebbe tenuto compagnia. Gli risposi
che era un onore per me e, per indurlo a dirmi il suo nome, dissi il mio
qualificandomi come segretario del cardinale Acquaviva.
« Il mio nome è Sancio Pico » mi disse. « Sono castigliano e provveditore
dell'esercito di Sua Maestà Cattolica, comandato dal conte di Gages agli
ordini del generalissimo duca di Modena. »
Ammirò l'appetito con cui mangiai tutto ciò mi servirono e mi chiese se
avevo pranzato. Mi parve sollevato quando gli dissi che ero digiuno.
« Ma la cena » mi chiese « non le farà male »
« Spero anzi che mi faccia bene! »
« Allora lei ha preso in giro il papa! Ma venga con me nella camera qui
accanto. Avrà il piacere di ascoltare della buona musica. Ci abita una
prima attrice »
Incuriosito e attratto dalla parola attrice, lo seguii.
Seduta a un tavolo vidi una donna in età che stava cenando con due ragazze
e due ragazzi, ma cercai invano l'attrice, finché non mi presentò come
tale uno dei due ragazzi, una personcina incantevole, che non poteva avere
che 16 o 17 anni. Pensai fosse il "castrato" che sosteneva il ruolo di
prima attrice al teatro di Ancona, dove vigevano le stesse regole che nei
teatri romani.
La madre mi presentò anche l'altro figlio, anch'egli piuttosto bello, ma
non castrato, che si chiamava Petronio e recitava come prima ballerina, e
le due ragazze: una, Cecilia, 12enne, studiava musica, e Marina, 11enne,
faceva la ballerina. Entrambe erano molto carine. La famigliuola era di
Bologna e campava sfruttando il talento dei suoi giovani membri, per i
quali bontà e allegria tenevano il posto della ricchezza.
Cedendo alle insistenze di don Sancio, Bellino, il castrato, andò a
sedersi al clavicembalo e cantò, con voce angelica e con affascinante
grazia, un’aria. Lo spagnolo ascoltava ad occhi chiusi, come in estasi. Io
ben lungi dal tenere gli occhi chiusi, ammiravo quelli di Bellino che,
neri come il carbone, emanavano un fuoco che mi bruciava l'anima. Il
giovane, mi ricordava nei tratti fisici donna Lucrezia e nei modi la
marchesa G. Il suo viso, per altro, mi pareva più quello di una donna che
quello di un ragazzo, e lo stesso abito maschile che indossava non
impediva di scorgere il gonfiore del petto. Così, nonostante me l’avessero
presentato come un maschio, mi misi in testa che fosse in realtà una
fanciulla travestita e perciò non soffocai dentro di me gli stimoli del
desiderio che la sua presenza mi ispirava.
Passammo insieme 2 ore piacevoli e poi io e don Sancio salutammo la bella
compagnia e ci ritirammo.
Accompagnandomi in camera, don Sancio mi avvertì che l’indomani mattina
sarebbe partito per Senigallia insieme all’abate Vilmarcati e che sarebbe
stato di ritorno di lì a 2 giorni, in tempo per la cena. Gli augurai buon
viaggio e gli dissi che forse ci saremmo incontrati per strada, perché mi
sarei fermato ad Ancona solo il tempo necessario per presentare al
banchiere la mia lettera di cambio e farmene dare una per Bologna e che
contavo di partire proprio di lì a due giorni.
Andai a letto turbato dall'impressione che mi aveva fatto Bellino. In
verità, mi sarebbe spiaciuto dovermene andare senza avergli dimostrato che
ero sensibile alla sua bellezza e che il suo travestimento non mi aveva
ingannato, e così, il mattino seguente, appena aperto l'uscio, fui
contento di vedermelo entrare camera per offrirsi come servitore, invece
del domestico che avrei dovuto assumere, suo fratello. Accettai senz'altro
e cominciai col mandare il giovane Petronio a prendere il caffè per tutta
la famiglia.
Feci sedere Bellino sul letto con l'intenzione di trattarlo come una
ragazza, ma proprio in quel momento entrarono le due sorelline. Il mio
progetto andò a vuoto, ma non potevo dirmi del tutto di dispiaciuto:
davanti ai miei occhi era tutto uno spettacolo di gaiezza, di bellezza, di
dolce familiarità, di brio teatrale, di simpatici scherzi e di smorfiette
bolognesi che non conoscevo e che mi entusiasmavano. Le 2 ragazzine,
infatti, per quanto giovanissime erano 2 boccioli di rose e portavano già
sui loro candidi petti i segni di una precoce pubertà, e le avrei senza
dubbio preferite a Bellino, se non mi fossi messo che Bellino era una
ragazza come loro.
Petronio arrivò con il caffè, ce lo servì e poi andò a portarne anche a
sua madre, che non usciva camera. Questo Petronio era un vero Gitone di
professione, un tipo abbastanza diffuso in quel bizzarro paese che è
l'Italia, dove l'intolleranza in materia non è così irragionevole come in
Inghilterra, nè così severa come in Spagna. Gli diedi uno zecchino per
pagare il caffè e quando gli dissi di tenersi i 18 paoli di resto, mi fece
chiaramente capire le sue vere inclinazioni dandomi un bel bacio a bocca
schiusa. Certo voleva dimostrarmi la sua riconoscenza e forse pensava
amassi quel genere di effusioni, ma mi fu facile disilluderlo, con una
smorfia di disgusto, anche se non mi parve che ci rimanesse male. Gli
dissi di ordinare il pranzo per sei, ma lui mi rispose che dovevo ordinare
solo per quattro, perché doveva tener compagnia alla sua cara mamma che
mangiava a letto.
Due minuti dopo, salì l'oste a dirmi che le persone avevo invitato a
pranzo mangiavano almeno per due e che, così stando le cose, mi avrebbe
servito solo se ero disposto a pagare sei paoli a commensale. Gli dissi
che andava bene e che accettavo.
Quindi, ritenni doveroso andare ad augurare il buon giorno alla
compiacente madre. Entrai nella sua stanza e le feci i miei complimenti
per la sua incantevole famiglia. Lei mi ringraziò per i diciotto paoli che
avevo dato al suo figliuolo e prese a confidarmi i suoi guai.
« L’impresario Rocco Argenti » mi disse « è un delinquente. Mi ha dato
solo cinquanta scudi romani per tutto il carnevale. Naturalmente li
abbiamo spesi per vivere adesso, se vorremo tornare a Bologna, dovremo
viaggiare a piedi o chiedere l'elemosina. »
Le regalai un doblone da otto che la fece piangere gliene promisi un altro
in cambio di una confidenza.
« Confessi che Bellino è una ragazza » le dissi. « « Le assicuro che non
lo è, anche se ne ha l'aspetto. Tant’è che ha dovuto farsi visitare. »
« Da chi? »
« Dal reverendissimo confessore di monsignor vescovo. Può andare a
chiedere a lui, se proprio non ci crede. »
« No, non ci credo e non ci crederò se non dopo averlo visitato io stesso.
»
« Faccia come vuole, ma in coscienza non posso immischiarmi, perché, Dio
mi perdoni, non conosco le sue intenzioni. »
Tornai in camera mia e mandai Petronio a rare una bottiglia di vino di
Cipro. Quando presi i sette zecchini di resto del doblone che gli avevo
dato e li divisi tra Bellino, Cecilia e Marina e poi pregai le due ragazze
di lasciarmi solo con il loro fratello.
« Caro Bellino, sono sicuro che non sei del sesso.»
« Sì che sono del suo sesso, ma castrato. Del resto, sono già stato
visitato. »
« Lasciati visitare anche da me, e ti regalo doblone. »
« No, perché è evidente che lei mi ama, e la religione me lo proibisce. »
« Però non hai avuto simili scrupoli con il confessore del vescovo. »
«Era un vecchio, e poi lui ha dato solo un'occhiata di sfuggita alla mia
disgraziata corformazione. »
Allungai una mano, ma lui mi respinse e si alzò.
Questa ostinazione mi mise di cattivo umore, perché avevo già speso una
quindicina di zecchini per soddisfare la mia curiosità. Mi sedetti a
tavola col broncio, ma l'appetito delle tre belle creature mi restituì il
mio buon umore e pensai bene di rifarmi con le due ragazze.
Così, mentre eravamo seduti accanto al fuoco a mangiare le castagne,
cominciai a distribuire baci a tutti e tre e poi pensai a toccare e a
baciare i seni nascenti di Cecilia e Marina. Bellino sorrideva compiaciuto
e non fece niente per impedire alla mia mano di insinuarsi sotto la sua
camicia e di afferrare un seno che mi tolse ogni dubbio.
« Con un seno così » gli dissi « non puoi essere che una ragazza. E non è
il caso che tu neghi! »
« No, è il difetto di tutti noialtri castrati. »
« Lo so, ma me ne intendo abbastanza per riconoscere la differenza. Questo
seno d'alabastro, mio caro Bellino, è il seno delizioso di una ragazza di
17 anni. »
Ero tutto un fuoco e, vedendo che lui non faceva per fermare la mia mano
che godeva di tanta grazia, volli accostare al seno anche le mie labbra e
scolorite dall'eccesso della passione; ma quell’impostore, come se si
fosse accorto solo allora del piacere che provavo, si alzò e mi piantò in
asso.
Mi ritrovai bruciante più di desiderio che di collera e, per calmarmi,
pregai Cecilia, scolara di Bellino, di cantarmi qualche aria napoletana.
Poi uscii per recarmi dal raguseo Bucchetti, che in cambio della mia
lettera di credito me ne diede una a vista per Bologna. Di ritorno
all'albergo, cenai in compagnia delle ragazze con un bel piatto di
maccheroni e poi, dopo aver pregato Petronio di farmi trovare pronta per
l’indomani mattina una carrozza di posta perché avevo deciso
di partite, salutai tutti e mi preparai ad andare a letto.
Mentre stavo per chiudere l'uscio, Cecilia, mezza svestita, venne a dirmi
che Bellino mi sarebbe stato grato se lo avessi portato con me fino a
Rimini dove aveva un contratto per cantare nell'opera che andava in scena
per Pasqua.
« Va a dirgli, angioletto, che sono pronto a fargli questo piacere se
prima lui è disposto a mostrarmi, se è maschio o femmina. »
Andò e tornò a dirmi che purtroppo Bellino era già a letto, ma se avessi
rimandato la mia partenza di un sol giorno, era disposto a soddisfare la
mia curiosità.
« Dimmi tu la verità e ti regalo sei zecchini. »
« Mi spiace, ma non posso, perché non l'ho mai visto nudo e non ci potrei
giurare. Comunque, deve essere per forza un maschio, altrimenti non
avrebbe potuto cantare in questa città. »
« Benissimo. Partirò dopodomani, se passerai la notte con me. »
« Allora mi ami? »
« Molto. Ma tu preparati ad esser gentile »
« Sarò molto gentile, perché anch'io ti amo Vado ad avvertire mia madre. »
« Tu hai già certamente avuto un amante »
« Mai! »
Uscì e tornò poco dopo tutta contenta, che sua madre mi giudicava una
persona onesta. Chiuse la porta e venne a gettarsi tra le mie braccia,
tutta calda e appassionata. Mi accorsi che forse era vergine ma, siccome
non ne ero innamorato, non vi badai. L'amore, in effetti, è il divino
condimento che rende deliziosa questa pietanza: Cecilia era incantevole,
ma non avevo avuto il tempo di desiderarla e potei dirle: « Hai fatto la
mia felicità ». Fu lei a dirmelo, ma non ne fui molto lusingato, finsi di
crederle. Mi addormentai tra le sue braccia al risveglio, dopo averle
affettuosamente augurato il buongiorno, le regalai tre dobloni che
probabilmente gradì più di qualsiasi promessa di eterna fedeltà, assurda
promessa che l'uomo non dovrebbe mai fare, nemmeno alla più bella donna.
Cecilia corse a portare il suo tesoro alla madre che piangendo di gioia,
rafforzò la sua fiducia nella Divina Provvidenza ed io mandai a chiamare
l’oste per ordinargli una cena abbondante per cinque, perché ero sicuro
che il nobile don Sancio, che sarebbe arrivato verso sera, non mi avrebbe
rifiutato l'onore di cenare con me.
A mezzogiorno non pranzai, ma la famiglia bolognese non ebbe bisogno di
assoggettarsi ad un tal regime per avere appetito a cena. Dopo pranzo feci
venire da me Bellino, per ricordargli la sua promessa, ma lui mi disse
ridendo che la giornata non era ancora finita e che, comunque, era sicuro
di venire con me a Rimini. Gli chiesi se voleva fare una passeggiata con
me e lui andò a vestirsi. Mentre lo aspettavo, sopraggiunse Marina che,
con aria mortificata, mi chiese che cosa mai avesse fatto per meritarsi il
mio disprezzo.
« Cecilia ha passato con lei la notte e Bellino parte con lei domani: io
sono la sola sfortunata. »
« Vuoi del denaro? »
« No, la amo. »
« Ma sei troppo piccola... »
« L'età non conta... Sono più formata di mia sorella. »
« E magari hai anche un amante... »
« Oh, questo no! »
« Benissimo! Vedremo stanotte. »
« Allora vado a dire alla mamma di preparare le lenzuola per domani,
perché altrimenti la serva dell’albergo scoprirebbe tutto. »
Questi scherzi mi divertivano un mondo.
Al porto, dove andai con Bellino, comprai un bariletto di ostriche
dell'arsenale di Venezia per fare onore a don Sancio e lo feci mandare
all'albergo. Poi condussi Bellino alla rada e con una feluca mi feci
portare a bordo di una nave di linea veneziana che aveva appena finito la
quarantena, ma non ci trovai nessuno di mia conoscenza. Salii quindi a
bordo di un vascello turco che stava per far vela alla volta di
Alessandria e la prima persona che vidi fu la bella greca che avevo
lasciato sette mesi prima nel lazzaretto di Ancona.
Stava accanto al vecchio capitano e io fingendo di non conoscerla, chiesi
al capitano se avesse delle belle mercanzie da vendere. Il capitano ci
condusse nella sua cabina e aprì i suoi bauli, mentre io leggevo negli
occhi della greca la gioia di rivedermi.
Tutto ciò che il turco mi mostrò non mi andava, ma gli dissi che avrei
comperato volentieri qualcosa che fosse piaciuto alla sua bella moglie. Il
capitano rise, la donna gli disse qualcosa in turco e lui se ne andò.
Allora la greca corse ad abbracciarmi e stringendosi al seno esclamò:
« Ecco il momento tanto atteso! »
In un impeto di coraggio non inferiore al suo, sedetti, me la tirai
addosso e in meno di un minuto le feci quello che il suo padrone non le
aveva fatto in cinque anni. Colto il frutto, stavo assapora dolo e avevo
bisogno almeno di un altro minuto inghiottirlo, quando la sventurata
greca, sentendo ritornare il padrone, scivolò fuori dalle mie braccia
mettendosi davanti a me mi diede il tempo di rimettermi a posto senza che
il turco potesse vedere disordine in cui ero e che avrebbe potuto costarmi
la vita o, per aggiustare le cose amichevolmente, tutto il mio denaro. La
situazione era piuttosto drammatica, ma la faccia stupita di Bellino, che
se ne stava immobile e tremante di paura in un angolo, mi fece scoppiare a
ridere.
Le cianfrusaglie che la bella schiava scelse mi costarono solo venti o
trenta zecchini. «Spolaitis» disse nella lingua del suo paese, quando il
padrone le disse di baciarmi, e scappò via coprendosi il volto. Me ne
andai più triste che allegro, compiangendo quella incantevole creatura che
il cielo, nonostante fosse così coraggiosa, si era ostinato a non
accontentare che a mezzo. Quando fummo nella feluca, Bellino, riavutosi
dalla paura, mi disse che lo avevo fatto assistere ad uno spettacolo
incredibile, che, però, gli dava una strana idea del mio carattere. Quanto
alla greca, invece, non ci capiva nulla, a meno che io non gli avessi
detto che le donne del suo paese erano tutte come lei, nel qual caso,
concluse, esse dovevano essere felici.
« Tu credi allora » gli dissi « che le civette siano più felici? »
« No, no. A me non piace né l'uno né l'altro tipo di donna. Per me una
donna deve cedere all'amore in buona fede e deve arrendersi dopo avere
lottato ton se stessa. Non mi va che per obbedire al primo impulso, si
abbandoni al primo che le piace come una cagna che segue solo l'istinto.
Questa greca, certo, ha dimostrato senza possibilità di dubbio che lei le
piace, ma nello stesso tempo le ha dato una perfetta dimostrazione della
sua brutalità e, anche, di una sfacciataggine che la esponeva alla
vergogna d'essere respinta, perché non poteva sapere di esserle piaciuta
come le era piaciuto lei. E’ molto bella e tutto è andato bene, ma la cosa
mi ha molto turbato. »
Avrei potuto calmare Bellino e ribattere le sue ragioni raccontandogli
tutta la storia, ma non mi conveniva. Infatti, se, come pensavo, era una
ragazza, avevo tutto l'interesse a convincerla che attribuivo, poca
importanza a tutta la faccenda e che non valeva la pena di fare la minima
fatica per impedire che avesse conseguenze.
Facemmo ritorno all'albergo e sull'imbrunire, quando nel cortile don
Sancio con la sua carrozza,
gli andai incontro e mi scusai di aver dato per sicuro avrebbe fatto
l'onore di cenare con Bellino e con me. Don Sancio, con dignità e con
cortesia, rispose che anzi ero stato molto gentile e accettò.
I cibi squisiti e ben cucinati, i buoni vini di Spagna, le belle ostriche
e soprattutto l'allegria e le voci di Bellino e Cecilia, che ci cantarono
duetti e seguidillas, fecero passare allo spagnolo cinque ore deliziose.
A mezzanotte, al momento di separarci, mi disse che non avrebbe potuto
considerarsi completamente soddisfatto se prima di coricarsi non avesse
avuto l'assicurazione che avrei cenato con lui il giorno dopo in camera
sua con tutta la compagnia. Si trattava di rimandare la mia partenza di un
altro giorno, ma accettai, senza stupirlo.
Appena Don Sancio se ne fu andato, sollecitai Bellino a mantenere la
parola che mi aveva dato, ma mi rispose che Marina mi aspettava e che
avremmo avuto il tempo di stare insieme l'indomani, e se ne andò.
Rimasi così solo con Marina che, tutta contenta chiuse la porta.
Marina era più formata di Cecilia, nonostante più giovane, e, come
dimostrava l'intensità dello sguardo, si sentiva in dovere di convincermi
che meritava d'esser preferita a sua sorella. Tanto per cominciare, forse
temendo che la notte prima mi fossi esaurito e che non potessi darle ciò
che si meritava, prese ad espormi tutte le sue idee sull'amore, mi
raccontò nei particolari tutto quello che sapeva fare, ostentò tutta la
sua scienza e mi specificò tutte le occasioni che le si erano offerte per
conoscere i misteri dell'amore e per farsi un'idea delle gioie che esso
offriva e i mezzi di cui si era servita per gustarne un po’. Da tutti quei
suoi discorsi, capii che temeva che io non trovandola vergine, la
rimproverassi. I suoi ingenui timori mi piacquero e mi divertii a
rassicurarla dicendole che la verginità delle ragazze era solo sciocca
fantasia, perché la maggior parte non ne ricevuto dalla natura nemmeno il
più piccolo segno e misi in ridicolo quelli che ne facevano una questione
d'onore.
Le mie teorie le piacquero e la indussero ad abbandonarsi fiduciosa tra le
mie braccia. Effettivamente si dimostrò superiore in tutto a sua sorella e
quando glielo dissi ne fu fiera. Ma quando pretese di farmi toccare il
colmo della felicità dicendomi che avrebbe passato tutta la notte con me
senza dormire, la sconsigliai, dimostrandole che ci avremmo rimesso,
perché se avessimo accordato alla natura la dolce pausa del sonno, essa si
sarebbe mostrata riconoscente al nostro risveglio, accrescendo la forza
del suo ardore.
Di fatto, dopo una bella dormita, al mattino appena svegli, rinnovammo la
festa e poi Marina mi lasciò contentissima dei tre dobloni che nella sua
gioia corse portare alla madre, cui crebbe infinitamente il desiderio di
contrarre obblighi sempre maggiori con la Divina Provvidenza.
Uscii per andare a farmi dare un po' di soldi da Bucchetti, perché non
potevo prevedere ciò che mi sarebbe potuto accadere durante il viaggio a
Bologna.
Mi ero divertito, ma avevo speso troppo, e mi rimaneva ancora Bellino che,
se era femmina, non doveva trovarmi meno generoso di quanto ero stato con
le sorelle. Comunque, la cosa sarebbe venuta senza dubbio in chiaro quel
giorno, e io non dubitavo del risultato.
Quanti sostengono che la vita è un insieme di disgrazie e anzi, che la
vita stessa è una disgrazia, sono, a mio giudizio, lontani dal vero. A
parte il fatto che se sostengono che la vita è un male sono costretti
anche ammettere che la morte, essendo il contrario è un bene, il che è per
lo meno assurdo, è chiaro che costoro sono delle persone povere e malate
che non hanno un soldo in tasca e che non sanno cosa voglia dire stringere
tra le braccia delle Cecilie e delle Marine. La loro, in verità, è una
genia di pessimisti che può essere esistita solo tra filosofi pitocchi e
teologi bricconi o atrabiliari. Se il piacere esiste e se si può goderne
soltanto in vita, la vita è gioia. Ci sono le disgrazie, lo so bene, ma
l'esistenza istessa di queste disgrazie prova che il bene è di gran lunga
maggiore. Io, ad esempio, sono infinitamente compiaciuto quando mi trovo
in una camera buia e vedo la luce al di là di una finestra che si apre su
un orizzonte sterminato.
All’ora di cena, andai in camera di don Sancio che era solo. La camera era
molto elegante, la tavola era coperta di vasellame d'argento e i domestici
erano in livrea. Poco dopo arrivarono Bellino, Cecilia e Marina. Bellino,
per capriccio o per artificio, si era vestito da ragazza: le due sorelline
erano molto carine ma lui le offuscava e in quel momento fui così sicuro
del suo sesso che avrei scommesso la vita contro un paolo. Non era
possibile immaginare una ragazza più bella.
«Lei è convinto » chiesi a don Sancio « che Bellino non è una ragazza? »
« Ragazza o ragazzo, che importa? Credo che sia un bellissimo castrato. Ne
ho visti altri belli come lui.»
«Ne è proprio sicuro? »
« Valgame Dios! Non ho alcuna voglia di assicurarmene. »
Rispettai nello spagnolo la saggezza che a me mancava e non replicai, ma a
tavola non mi riuscì di staccare gli occhi da quella creatura che la mia
natura peccaminosa mi costringeva ad amare e a credere del sesso di cui
avevo bisogno che fosse.
La cena di don Sancio fu squisita e, naturalmente, migliore della mia,
anche perché altrimenti lui si sarebbe creduto disonorato. Ci ammannì
tartufi bianchi, frutti di mare di diverse qualità, i migliori pesci
dell'Adriatico, Champagne naturale, Peralta, Xeres e Pedro Ximenes.
Dopo cena, Bellino cantò così deliziosamente da farci smarrire il poco di
ragione che ci era rimasta dopo vini tanto squisiti. I suoi gesti,
l'espressione dei suoi occhi, il suo incedere, le sue maniere, la sua
aria, la sua fisionomia, la sua voce e soprattutto il mio istinto, che non
poteva farmi provare per un castrato quello che provavo per lui, tutto mi
confermava nella mia idea, ma per averne la sicurezza avrei dovuto
accertarmene con i miei occhi.
Dopo aver adeguatamente ringraziato il nobile castigliano, gli augurammo
un'ottima notte ed entrammo in camera mia, dove Bellino avrebbe dovuto
mantenere la parola o meritarsi il mio disprezzo e rassegnarsi a vedermi
partire solo il mattino dopo. Presi Bellino perla mano, lo feci sedere
accanto a me davanti al fuoco e pregai Cecilia e Marina di lasciarci soli.
Appena le due ragazze se ne furono andate, dissi a Bellino:
« Se sei del mio sesso, ce la sbrigheremo in un attimo. Se invece sei
quello che penso, dipenderà soltanto da te passare la notte con me. Domani
mattina ti darò cento zecchini e partiremo insieme. »
« Lei partirà solo, e avrà la generosità di perdonare la mia debolezza,
perché non posso mantenere la parola. Sono castrato e non posso risolvermi
a lasciarle vedere la mia vergogna né ad espormi alle orribili conseguenze
che questo chiarimento potrebbe avere. »
« Non ci saranno conseguenze. Quando ti avrò visto o toccato, sarò io
stesso a pregarti di ritirarti in camera tua. Partiremo domani mattina
calmissimi e non parleremo più della faccenda. »
« No, è deciso. Non posso soddisfare la sua curiosità. »
A queste parole, fui sul punto di cedere all'ira, ma mi controllai e
tentai con dolcezza di arrivare con la mano là dove avrei trovato la
soluzione del problema, ma Bellino usò la sua per rendermi impossibile la
bramata perquisizione.
« Togli la mano, caro Bellino... »
«No, assolutamente no! Lei è in uno stato che mi spaventa. Me lo aspettavo
e non acconsentirò mai ad una cosa così orribile. Adesso le mando le mie
sorelle. »
Lo trattenni facendo finta di calmarmi, ma d'un tratto credendo di
coglierlo di sorpresa, allungai il braccio verso il suo basso ventre e la
mia mano si sarebbe rapidamente resa conto in quel modo della cosa, se
Bellino non avesse parato il colpo alzandosi ed opponendo alla mia mano,
che non voleva abbandonare la presa, la sua, con cui copriva ciò che
chiamava la sua vergogna. In quel momento mi parve o, per lo meno,
credetti, suo malgrado, di vederlo tale. Stupito, irritato, mortificato e
disgustato, lo lasciai andare. Mi era parso un uomo, e per di più un uomo
disprezzabile, sia per la sua mutilazione che per la vergognosa
tranquillità che mi parve di leggergli in viso nel momento in cui non
avrei voluto avere le prove della sua insensibilità. Di lì a un momento,
arrivarono le sue sorelle, ma le pregai di andarsene, perché avevo bisogno
di dormire. Dissi loro di avvertire Bellino che l'avrei portato con me e
che la mia curiosità era finita. Chiusi la porta e mi coricai, piuttosto
malcontento però, perché, nonostante che quello che avevo visto dovesse
avermi disingannato, non ero convinto. Ma che cosa volevo ancora? Ahimè,
ci pensavo e non venivo a capo di nulla.
Al mattino, dopo colazione, partii con Bellino, col cuore straziato dai
pianti delle sorelline e della madre che con in mano il rosario borbottava
dei paternostri e non faceva che ripetere: «Dio provvederà».
La fede nella Provvidenza Eterna di quasi tutti coloro che vivono di
mestieri proibiti dalle leggi o dalla religione non è né assurda né falsa
e neppure frutto di ipocrisia: è una fede vera, reale e, così com'è, pia
perché nasce da un'ottima fonte. Sia pure per vie imperscrutabili, è
sempre la Provvidenza che opera sulla terra, e coloro che la adorano, al
di là di qualsiasi considerazione, non possono che essere brava gente,
anche se infrangono le leggi umane e divine.
“Pulchra Laverna
Da mihi fallere; de justo sanctoque videri;
Noctem peccatis, et fraudibus obice nubem!“
Così parlavano in latino alla loro dea i ladri romani al tempo di Orazio,
che, mi disse una volta un gesuita, non avrebbe saputo la sua lingua, se
avesse veramente scritto justo sanctoque. Gli ignoranti non mancano
nemmeno tra i Gesuiti, perché i ladri si beffano della grammatica.
Eccomi dunque in viaggio con Bellino che, credendo d'avermi disingannato,
poteva pensare che non avrei più avuto nessuna curiosità nei suoi
confronti. Ma non passò un quarto d'ora che dovette accorgersi che si
sbagliava. Infatti, non potevo guardarlo negli occhi senza sentirmi
bruciare d'amore.
Gli dissi che i suoi erano occhi da donna e non da uomo, e che a quel
punto avevo assolutamente bisogno di convincermi nell'unico modo
possibile, cioè toccando con le mie mani, che quello che avevo visto
quando la sera prima era scappato non era un mostruoso clitoride.
« Se così fosse » continuai « non mi sarebbe difficile perdonarti questa
anomalia che, d'altronde, è soltanto ridicola. Ma se non è un clitoride,
bisogna che me ne persuada, e la cosa è facilissima. Non mi interessa più
vedere: tutto ciò che chiedo è toccare, e sta' tranquillo che non appena
me ne convincerò diventerò dolce come un colombo. Una volta appurato che
sei uomo, mi sarà impossibile continuare ad amarti. Sarebbe un amore
perverso per il quale, grazie a Dio, non provo alcuna inclinazione. Il tuo
faccino e, soprattutto, il seno che hai offerto alla mia vista e alle mie
mani pretendendo di convincermi in quel modo che mi sbagliavo, hanno fatto
nascere dentro di me una impressione invincibile che mi induce a seguitare
a crederti ragazza. La tua figura, le tue gambe, le tue ginocchia, le tue
cosce, le tue anche e le tue natiche sono la copia perfetta della
Anadiomene che ho vista tante volte. Se, nonostante tutto ciò, sei
soltanto un castrato, devo credere che, ben sapendo di assomigliare in
tutto e per tutto a una ragazza, hai concepito il crudele proposito di
farmi innamorare per farmi impazzire, rifiutandomi la sola prova che
potrebbe mettermi il cuore in pace. Come un buon medico, hai imparato alla
più maledetta delle scuole che l’unico modo per impedire a un giovane di
guarire da una passione amorosa è di eccitarlo di continuo; ma, mio caro
Bellino, ammetterai che non saresti capace di esercitare questa tirannia
se non odiassi la persona sulla quale essa deve avere un tale effetto.
Stando così le cose, dovrei fare appello a quel po' di ragione che mi
rimane per odiarti, ragazza o ragazzo che tu sia; e devi anche capire che
rifiutandomi ostinatamente il chiarimento che ti domando, mi costringi a
disprezzarti come castrato. L'importanza che attribuisci alla cosa è
puerile e anche malvagia. Se hai un po' di cuore non puoi ostinarti in
questo rifiuto che mi mette nella crudele necessità di avere dei dubbi.
Devi renderti conto che, in queste condizioni, alla fin fine potrei
ridurmi a ricorrere alla forza. Se mi sei nemico, devo trattarti come
tale, senza alcun riguardo. »
Finito che ebbi questo duro discorso, che ascoltò senza interrompermi,
Bellino per tutta risposta mi disse:
«Si ricordi che lei non è il mio padrone, che sono nelle sue mani sotto
pegno di una promessa che lei mi ha fatto attraverso Cecilia e che si
renderebbe colpevole di un delitto, se mi usasse violenza. Dica al
vetturino di fermarsi: scenderò, e non andrò a lamentarmi con nessuno. »
E dopo queste poche ma ferme parole, scoppiò a piangere gettandomi in un
vero stato di desolazione. Pensai quasi di aver avuto torto: dico quasi,
perché se ne fossi stato sicuro gli avrei chiesto perdono, ma, poichè non
volevo erigermi a giudice della mia causa, mi chiusi in un cupo silenzio
ed ebbi la costanza di non pronunciar più una parola fino a metà strada da
Senigallia, dove intendevo cenare e dormire. Sentivo, infatti, che prima
di arrivare a destinazione, dovevamo venire ad una risoluzione e pensavo
di poterlo ancora ridurre alla ragione.
« Avremmo potuto separarci a Rimini da buoni amici » gli dissi « e così
sarebbe stato, se tu mi avessi dimostrato un po' di amicizia. Se fossi
stato appena un po' più compiacente, avresti potuto guarirmi dalla mia
passione. »
« No, non ne sarebbe guarito» mi rispose Bellino, con fermezza, ma con un
tono la cui dolcezza mi stupì, « perché lei è innamorato di me, donna o
maschio che io sia, e anche se mi avesse trovato maschio avrebbe
continuato ad essere innamorato di me e i miei rifiuti non avrebbero fatto
altro che accrescere la sua furia: anzi, di fronte alle mie resistenze, si
sarebbe abbandonato a eccessi che le avrebbero poi fatto spargere inutili
lacrime. »
« E così credi di darmi ad intendere che la tua ostinazione è ragionevole.
Ma ti dico che ti sbagli. Dammi la prova che non sei una ragazza, e
troverai in me soltanto un casto e buon amico. »
« Diventerebbe furioso, le dico. »
« Ciò che mi ha reso furioso è stata l'esibizione delle tue grazie di cui,
ammettilo, non potevi certo ignorare l'effetto. Ma se allora non hai
temuto il mio furore amoroso, come puoi farmi credere di temerlo adesso
che ti domando soltanto di farmi toccare una cosa che non può che
disgustarmi? »
« Oh! Disgustarla! Sono sicuro del contrario. Mi stia a sentire. Se fossi
una ragazza non potrei non amarla, lo so. Ma visto che sono un ragazzo, ho
il dovere di non assecondare affatto il suo desiderio, perché la sua
passione, che ora è soltanto naturale, diventerebbe immediatamente
mostruosa. La sua natura ardente entrerebbe in conflitto con la sua
ragione, e questa si lascerebbe facilmente andare diventando complice del
suo istinto. In breve, in virtù di questa miscela esplosiva che non sembra
temere e che, anzi, vorrebbe che l'aiutassi a preparare, lei non saprebbe
più controllarsi. I suoi occhi e le sue mani, cercando ciò che non
potrebbero trovare, penserebbero di vendicarsi su quello che troverebbero,
e tra lei e me accadrebbe ciò che di più abominevole può accadere tra due
uomini. Come può illudersi, intelligente come è, di poter smettere di
amarmi, scoprendo che sono un uomo? Crede forse che quelle che lei chiama
le mie grazie e di cui dice d'essere innamorato, scomparirebbero?
Diventerebbero, invece, più forti e allora la sua passione, diventata
brutale, ricorrerebbe a tutti i mezzi che la sua fantasia eccitata
escogiterebbe per soddisfarsi. Arriverebbe a convincersi di potermi
trasformare in donna o, immaginando di potercisi trasformare lei,
pretenderebbe che la considerassi tale. La sua ragione, sedotta dalla
passione, inventerebbe un'infinità di sofismi, sosterrebbe che il suo
amore per me maschio è più ragionevole di quel che sarebbe se fossi
femmina, perché ne rintraccerebbe la radice nella più pura amicizia e non
mancherebbe di allegarmi esempi famosi di simili stranezze. Poi, ammaliato
lei stesso dalla speciosità delle sue argomentazioni, diventerebbe un
torrente che nessuna diga potrebbe fermare, e mentre a me mancherebbero le
parole per distruggere le sue false ragioni e le forze per respingere il
suo furore, arriverebbe a minacciarmi di morte se le impedissi di
penetrare in un tempio inviolabile la cui porta la saggia natura creò per
aprirsi soltanto a ciò che esce. Sarebbe, questa, una profanazione
orribile che potrebbe essere compiuta solo col mio consenso, ma preferirei
morire che darglielo. »
« Non accadrebbe nulla del genere » gli risposi un po' oppresso dal rigore
della sua argomentazione. « Tu esageri. Debbo comunque dirti, a sgravio di
coscienza, che, se anche accadesse quanto dici, mi sembra che sarebbe più
facile perdonare alla natura uno smarrimento siffatto, che la filosofia
non può che considerare un gioco folle e privo di conseguenze, che agire
in modo da rendere inguaribile una malattia dello spirito che la ragione
trasformerebbe in passeggera.».
Così ragiona il povero filosofo quando il tumulto di una passione
scombussola le sue facoltà mentali!
Per ragionar bene, infatti, bisogna non essere innamorati né irritati,
perché queste due passioni ci rendono simili alle bestie, ma
sventuratamente non siamo mai così portati a ragionare come quando siamo
in preda a una di esse.
Arrivammo a Senigallia, dopo un viaggio abbastanza tranquillo, a notte
inoltrata, e scendemmo all'albergo della posta. Scelsi una buona camera,
vi feci portare i bagagli e ordinai la cena. Nella stanza, però, c'era un
solo letto e perciò chiesi con molta calma a Bellino se voleva farsi
accendere il fuoco in un'altra camera. Immagini il lettore la mia sorpresa
quando lo sentii rispondere con dolcezza che non aveva nessuna difficoltà
a coricarsi nel mio stesso letto. Veramente, questa risposta, che non mi
sarei mai potuto aspettare, era proprio ciò che mi occorreva per liberarmi
dal malumore che mi turbava. Capii che stavo per arrivare alla fine dello
spettacolo, ma non osavo rallegrarmene perché non riuscivo a prevedere se
sarebbe stata piacevole o tragica. Di una cosa pero ero certo, e cioè che
una volta a letto Bellino non mi sarebbe sfuggito, anche se avesse avuto
la sfrontatezza di non spogliarsi. Contento di aver vinto, ero deciso ad
ottenere una seconda vittoria su me stesso, rispettandolo se lo avessi
trovato maschio, cosa che però non credevo possibile, mentre invece, se
l'avessi trovato femmina ero certo di ottenere da lui tutte le compiacenze
che mi doveva, non fosse altro che per rendermi giustizia.
Ci mettemmo a tavola e nei suoi discorsi, nel suo atteggiamento,
nell'espressione del suo sguardo, nei suoi sorrisi, Bellino mi parve un
altro.
Liberato come mi sentivo da un gran peso, cercai rendere la cena il più
breve possibile. Quando ci alzammo da tavola, Bellino fece portare un lume
da notte in camera e, dopo aver chiuso l'uscio, si spogliò e si coricò. Io
lo imitai senza pronunciar parola e mi infilai nel letto accanto a lui.
Volume
I
-
( parte del )Capitolo
XII
Bellino smascherato.
La sua storia.
Mi arrestano.
Appena fummo ambedue a letto, trasalii vedendo Bellino
venirmi vicino. Subito me lo strinsi al petto e lo sentii animato dalla
mia stessa passione. Il nostro duetto cominciò con un diluvio di baci. Poi
le sue mani scesero a cercarmi giù lungo la schiena fino alle reni e
allora io spinsi le mie ancor più in basso e nel medesimo istante trovai
la soluzione dell'enigma e la chiave della mia felicità. Mi sentivo
felice: ero felice e temevo di cessare di esserlo se avessi parlato o di
esserlo come non avrei voluto, e così mi abbandonai corpo e anima alla
gioia che inondava la mia vita che vedevo condivisa. Ma la mia felicità
era tale impadronendosi di tutti i miei sensi, toccò il punto in cui la
natura, affogando nel supremo piacere si estenua. Rimasi per un minuto
immobile per assaporare il mio trionfo.
La vista e il tatto, che avevo creduto dovessero rappresentare, in quel
dramma, i principali personaggi, ebbero in realtà solo ruoli secondari. I
miei occhi non desideravano felicità maggiore di quella di fissarsi sul
volto della persona che li affascinava e il mio tatto, confinato alla
punta delle dita, solo di dover mutar posto, perché non riusciva a
immaginare di trovare niente di più piacevole. Avrei accusato la natura di
estrema viltà se senza il mio consenso avesse osato abbandonare il posto
di cui mi sentivo possessore.
Dopo qualche minuto di pausa, che trascorremmo nel più eloquente silenzio,
ricominciammo da capo. Il piacere che ci procuravamo l'un l'altra era
qualcosa di ineffabile: Bellino me lo dimostrava di tanto in
tanto con dolcissimi gemiti e io godevo al punto che non volevo mai
arrivare al culmine del piacere. Durante tutta la vita, in effetti, non
sono mai riuscito a liberarmi dalla paura che il mio destriero
recalcitrasse a ricominciare e ho sempre preferito trattenermi il più
possibile, anche perché il piacere della donna ha sempre rappresentato per
me i quattro quinti del mio. Questa, del resto, è la vera ragione per cui
siamo naturalmente portati a detestare la vecchiaia, che può procurarsi
piacere ma non darne, anche se, nonostante la fuggiamo per tutta la vita
come un terribile e mostruoso nemico, alla fine è sempre lei, ad avere la
meglio.
Sostammo, alfine. Una pausa ci era necessaria. Veramente non eravamo
stanchi, ma i nostri sensi avevamo proprio bisogno della tranquillità dei
nostri spiriti per potersi riprendere.
Bellino fu il primo a rompere il silenzio. Mi chiese trovata abbastanza
innamorata.
“Innamorata? Ammetti dunque d'essere una donna? Dimmi, tigre, se è vero
che mi amavi, come hai potuto rinviare così a lungo la tua e la mia
felicità? Ma è proprio vero che sei di quel sesso incantatore cui sembri?”
“Adesso che sono tutta tua, puoi accertattene da te”
“Ho bisogno di assicurarmene. Gran Dio! Ma dove è andato a finire il
mostruoso clitoride che ho visto ieri?”
E dopo un esame pienamente convincente, la cui conseguenza fu una nuova
manifestazione di riconoscenza che durò a lungo, quella incantevole
creatura mi raccontò la sua storia.
“Il mio vero nome è Teresa” mi disse. “In casa di mio padre, povero
impiegato dell'Istituto di Bologna, alloggiava il famoso cantante castrato
Salimbeni. Avevo dodici anni e una bella voce. Salimbeni era un bell'uomo.
Fui lusingata di piacergli e di sentirmi lodare da lui, e quando mi
propose di studiare con lui la musica e il clavicembalo fui felicissima.
In capo a un anno ero già in grado di cantare, accompagnandomi al
clavicembalo, come cantava lui, che era quel gran musico che era, tanto
grande che l'elettore di Sassonia e Re di Polonia l'aveva chiamato alla
sua corte. La sua ricompensa fu quella che il suo amore lo indusse a
chiedermi, e io gliel'accordai, senza sentirmi umiliata, perchè lo
adoravo. Indubbiamente, gli uomini come te sono preferibili a quelli che
assomigliano al mio primo amante, ma Salimbeni era un essere eccezionale.
La sua bellezza, la sua intelligenza, i suoi modi, il suo talento e le
eccelse qualità del suo cuore e del suo animo me lo rendevano preferibile
a tutti gli uomini che avevo conosciuto fino a quel momento. Era anche
modesto e discreto, ricco e generoso, e credo che nessuna donna mai abbia
potuto resistergli, anche se non l'ho mai sentito vantarsi di una
conquista. La mutilazione aveva fatto di lui un mostro, ma un mostro dalle
qualità adorabili. Dal giorno in cui mi diedi a lui, ha fatto la mia
felicità, prodigandosi sempre tanto per me, ma credo d'avere anch'io la
sua.
“Salimbeni manteneva, a Rimini, in casa di un maestro di musica, un
ragazzo della mia età che il padre, in punto di morte, aveva fatto
castrare per preservargli bella la voce e permettergli di servirsene in
teatro per mantenere la numerosa famiglia che lasciava sulla terra. Il
ragazzo si chiamava Bellino ed era il figlio della brava donna che hai
conosciuto ad Ancona e che tutti credono mia madre. Ero ormai da un anno
l'amante di Salimbeni, quando un giorno egli mi disse piangendo che mi
doveva lasciare per recarsi a Roma, ma che sarebbe ritornato presto.
Partendo, mi spiegò, avrebbe lasciato a mio padre il denaro necessario per
continuare a farmi studiare; ma proprio in quei giorni una febbre maligna
si portò via mio padre ed io rimasi orfana. Ero disperata. Salimbeni non
ebbe la forza di resistere alle mie lacrime e decise di condurmi con sé a
Rimini e di mettermi a pensione in casa dello stesso maestro di musica
dove teneva il giovane Bellino, il fratello di Cecilla e di Marina.
Lasciammo Bologna di notte, senza che nessuno lo sapesse, anche perché
nessuno mi conosceva e s'interessava a me tranne il buon Salimbeni. Quando
arrivammo a Rimini, mi lasciò in albergo e si recò dal maestro di musica
per prendere i necessari accordi, ma di lì a una mezz 'ora era già di
ritorno, e pensieroso: Bellino era morto il giorno prima.
Pensando al dolore che la madre avrebbe provato alla notizia della
scomparsa del ragazzo, pensò di ricondurmi a Bologna sotto il nome di
Bellino e di mettermi a pensione in casa di sua madre che, povera com’era,
avrebbe avuto tutto l'interesse a serbare il segreto. “Le darò” mi spiegò
“i mezzi per farti studiare e perfezionare, e tra quattro anni ti farò
venire a Dresda, non come una ragazza ma come castrato. Vivremo insieme
senza che nessuno abbia nulla da ridire e tu mi farai felice per tutta la
vita. Si tratta di fare in modo che a Bologna tutti ti credano, Bellino ma
questo non sarà difficile, visto che nessuno ti conosce. Solo la madre di
Bellino sarà al corrente di tutta la faccenda, perché gli altri suoi figli
erano ancora molto piccoli quando portai via Bellino e non sospetteranno
di nulla. Se dunque mi ami davvero devi rinunciare al tuo sesso e perderne
persino il ricordo, devi assumere il nome di Bellino e partire subito con
me per Bologna, vestita da ragazzo.
D'ora innanzi dovrai stare bene attenta e fare in modo che nessuno scopra
che sei una ragazza. Dormirai sola, farai attenzione nel vestirti e,
quanto al seno, quando tra un paio d'anni ti si svilupperà, non
preoccuparti, perché è un difetto comune a tutti noi. Inoltre, prima di
lasciarti, ti darò un piccolo aggeggio e ti insegnerò ad applicartelo là
dove si vede la differenza di sesso, in modo che, nel caso ti dovessi
sottoporre a una visita, tu possa trarre in inganno la gente. Se il mio
piano ti va, sono certo che potremo vivere insieme a Dresda senza che la
regina, che è molto religiosa, vi possa trovare a ridire. Non poteva
dubitare del mio consenso, perché non c'era per me piacere più grande che
fare tutto ciò che voleva. Gettai via tutti i miei indumenti femminili e
mi vestii da ragazzo. Quindi, dopo che Salimbeni ebbe dato ordine al suo
servitore di attenderlo a Rimini, partimmo per Bologna, dove arrivammo sul
far della notte. Mi sistemò in albergo e poi corse subito dalla madre di
Bellino. La informò del suo piano e non appena la poveretta accettò,
consolandosi, per così dire, in quel modo, della morte del figliolo, me la
portò in albergo. La signora mi chiamò figliolo ed io chiamai lei mamma.
Salimbeni se ne andò dicendoci di aspettarlo e tornò di lì a un'ora con in
tasca l'arnese che in caso di necessità avrebbe dovuto farmi scambiare per
uomo. L'hai visto. E’ una specie di budello, lungo, molle, grosso come un
pollice, bianchiccio e molto morbido. Stamattina, quando l'hai chiamato
clitoride, non ce la facevo più a trattenermi per non scoppiare a riderti
in faccia. L'aggeggio è attaccato a una pelle sottile e trasparente, di
forma ovale, lunga da cinque a sei pollici e larga due, che, applicata con
della colla sul pube nasconde l'organo femminile. In quell'occasione
Salimbeni sciolse la colla e mi montò il tutto in presenza della mia nuova
madre e così conciata divenni come il mio caro amico. In verità la cosa mi
faceva ridere e certo mi sarei messa a ridere se l'imminente partenza
dell'uomo che adoravo non mi avesse spezzato il cuore. Di fatto, partito
che fu, rimasi come morta, con addosso il presentimento di non rivederlo
più. La gente si fa beffe dei presentimenti, e a ragione, perché il cuore
non parla a tutti, ma il mio cuore non mi ingannava: Salimbeni è morto
giovanissimo un anno fa nel Tirolo, da vero filosofo. Ormai, per campare,
ero ridotta a trar partito dal mio talento. Mia madre pensò che sarebbe
stato meglio continuare a spacciarmi per maschio, perché sperava di
riuscire a portarmi a cantare a Roma e, nel frattempo, per tirare avanti,
accettò la scrittura per il teatro di Ancona, dove fece danzare Petronio
come ragazza.
Dopo Salimbeni, tu sei il solo uomo tra le cui braccia abbia veramente
conosciuto l'amore e dipende solo da te che lasci per sempre il nome di
Bellino che, dopo la morte di Salimbeni, mi riesce detestabile e che
comincia anche a mettermi in situazioni piuttosto imbarazzanti. Ho cantato
soltanto in due teatri e in tutti e due, se ho voluto essere ammessa, ho
dovuto subire esami e controlli vergognosi. Infatti tutti mi trovano così
simile a una ragazza che per credermi uomo hanno bisogno di averne le
prove. E questo sarebbe ancora il meno, anche perché fino ad ora ho avuto
a che fare soltanto con vecchi sacerdoti che si accontentavano di quel che
vedevano per fare il loro rapporto al vescovo, ma purtroppo devo anche
continuamente difendermi da due categorie di persone che mi ronzano
intorno per ottenere da me favori illeciti ed orribili. Da una parte ci
sono quelli che, come te, innamorano di me e non potendo credere che sia
maschio pretendono che dia loro le prove della verità: e in questo caso
non posso certo accontentarli, perché c'è il pericolo che vogliano
convincersene con il tatto, con il rischio non solo che mi smascherino,
ma, soprattutto, che, incuriositi, vogliano servirsi del mio arnese per
soddisfare delle voglie mostruose. Dall'altra parte ci sono invece quei
turpi individui che mi dichiarano il loro brutale amore, ritenendomi, come
voglio apparir loro, un castrato e sono quelli che più mi perseguitano,
tanto che, amico mio, ho paura che un giorno o l'altro, ne pugnalerò
qualcuno. Ahimè, angelo mio, toglimi da questa vergogna, prendimi con te!
Non domando di sposarti: voglio essere soltanto la tua fedele amica, come
sarei stata per Salimbeni. Il mio cuore è puro e mi sento di amarti per
sempre. Non mi abbandonare. L'amore che mi hai ispirato è vero amore;
quello che provavo per Salimbeni era qualcosa di innocente e io stessa mi
rendo conto di essere diventata veramente donna solo dopo essere stata tra
le tue braccia.”
Profondamente commosso, le asciugai le lacrime e le promisi con tutto il
cuore che saremmo stati insieme. Ma, per quanto la straordinaria storia
che mi aveva raccontata mi sembrasse fondamentalmente vera e attendibile,
non potevo convincermi di averle ispirato un vero affetto fin dal nostro
soggiorno ad Ancona.
“Se mi amavi” le chiesi “come hai potuto farmi soffrire tanto e lasciare
che andassi con le tue sorelle?”
“Ahimè, amico mio! Pensa alla nostra grande povertà e al mio pudore a
svelare il mio essere. Ti amavo, ma potevo esser certa che l'interesse che
mi mostravi non era solo un capriccio? Vedendoti passare con tanta
leggerezza dalle braccia di Cecilia a quelle di Marina, ho temuto che
avresti fatto così anche con me, non appena avessi soddisfatto i tuoi
desideri. E poi, sulla nave turca, vedendoti fare quello che hai fatto con
quella schiava, senza che la mia presenza ti imbarazzasse, non ho più
avuto dubbi sulla tua volubilità e, anche, sulla scarsa importanza che
attribuisci a certe cose. Infatti, se soltanto mi avessi amato un poco, ti
saresti sentito imbarazzato, e così ho pensato che non ti importasse
niente di me e che anzi mi disprezzassi, e Dio solo sa quanto ho sofferto.
M'hai insultata, amico mio, in cento modi diversi, ma io, dentro di me,
cercavo di giustificarti. Ti vedevo irritato e desideroso di vendicarti.
Ancora oggi, in carrozza, non mi hai minacciata? Confesso che mi hai fatto
paura, ma non credere che mi sia indotta ad accondiscendere ai tuoi
desideri per paura. No, amico mio, avevo deciso di darmi a te, non appena
mi avessi portata via da Ancona, fin dal momento in cui ho detto a Cecilia
di venirti a chiedere se volevi condurmi a Rimini.”
“Liberati dall'impegno che hai a Rimini e proseguiamo il viaggio. Ci
fermeremo qualche giorno a Bologna e poi verrai con me a Venezia, Vestita
da donna e con un altro nome, sfido l'impresario dell'opera di Rimini a
ritrovarti.”
“Accetto. La tua volontà sarà sempre la mia. Salimbeni è morto: io sono
padrona di me e mi rimetto a te. Il mio cuore ti appartiene per sempre e
spero di sapermi conservare il tuo”.
“Lascia che ti veda ancora, ti prego, con quello strano aggeggio che ti
diede Salimbeni”.
“Subito”
Scese dal letto, versò dell'acqua in una ciotola, aprì un baule, ne tolse
lo strumento e la colla, fece fondere la colla e si adattò il
camuffamento. Il risultato era qualcosa di incredibile. Già incantevole di
per sé, con quello straordinario aggeggio Teresa diventava ancora più
attraente, perché quel candido pendaglio, in realtà, non nascondeva un bel
niente. Vedendola così, non potei fare a meno di dirle che aveva fatto
bene a non lasciarsi toccare da me, perché altrimenti avrei perso e chissà
cosa avrei fatto, se non avesse provveduto subito a disingannarmi. Lei non
mi credette e volevo a tutti i costi convincerla che dicevo la verità, ne
uscì una discussione comicissima. Alla fine ci addormentammo e ci
risvegliammo solo molto tardi.
Colpito da ciò che mi aveva detto e affascinato dalla sua bellezza, dal
suo talento, dall'innocenza del suo animo, dai suoi sentimenti e dalle sue
sventure, delle quali la più crudele era certo stata quella di doversi
fingere qualcosa di diverso da quello che era, esponendosi così
all'umiliazione e alla vergogna, ero ben deciso ad unirla al mio destino o
ad unire me al suo, perché la nostra situazione era press'a poco la
stessa. Riflettendo su questo fatto, mi resi anche conto che, visto che
ero deciso a stare per sempre con lei, dovevo sigillare la nostra unione
con il matrimonio. Secondo le idee che avevo allora, infatti, il sacro
vincolo del matrimonio non avrebbe che aumentato il nostro amore,
rafforzato la nostra stima reciproca e conquistato quella della società
che pensavo, non avrebbe mai riconosciuto la legittimità del nostro legame
se non fosse stato sancito dalla legge. Il talento di Teresa, tra l'altro,
mi garantiva che non ci sarebbe mai mancato il necessario per vivere, e,
d'altra parte, non disperavo neppure del mio talento, anche se non sapevo
come avrei potuto trarne partito. L'idea di dover vivere a spese di
Teresa, però, mi diede da pensare. Forse, senza dire che avrei potuto
sentirmi umiliato, Teresa avrebbe potuto inorgoglirsene e, alla fine,
anche mutare la natura dei suoi sentimenti perché, invece di trovare in me
il suo protettore, si sarebbe riconosciuta mia benefattrice. Certo il
nostro amore ne sarebbe rimasto incrinato, ma non potei fare a meno di
pensare che se l'animo di Teresa fosse stato capace di tale bassezza, lei
si sarebbe resa degna di tutto il mio disprezzo. Così, capii che, prima di
assumermi qualsiasi responsabilità, dovevo sapere come stavano le cose:
dovevo sondare Teresa e sottoporla ad una prova che mi permettesse di
conoscere a fondo il suo animo. Decisi perciò di tenerle un bel discorso.
“Mia cara Teresa” le dissi “ciò che mi hai raccontato mi dà la certezza
che mi ami e il fatto che tu sia tanto sicura di essere diventata padrona
del mio cuore mi fa sentire così innamorato che sono pronto a far
qualsiasi cosa per convincerti che non ti sei ingannata. Devo, anzitutto,
dimostrarti di essere degno della tua fiducia, ricambiandoti con la stessa
sincerità di cui mi hai dato prova. I nostri cuori devono porsi l'uno di
fronte all'altro in condizione di perfetta parità. Adesso io conosco te,
ma tu non conosci me. Tu mi dici che non te ne importa, e questo abbandono
mi dimostra quanto grande sia il tuo amore, ma mi pone anche al di sotto
di te, proprio nell'atto in cui pensi di renderti ancor più adorabile
ponendomi al di sopra di te. Tu non vuoi saper nulla, non chiedi che di
appartenermi e non aspiri che a possedere il mio cuore. E’ bello, Teresa,
ma per me è umiliante. Tu mi hai confidato i tuoi segreti e io debbo
confidarti i miei, ma prima promettimi che quando avrai ascoltato ciò che
ho da dirti mi dirai sinceramente che cosa è cambiato nel tuo cuore.”
“Te lo prometto: non ti nasconderò nulla. Ma tu cerca di essere leale, e
non confidarmi cose false. T'avverto che non ti serviranno a nulla, se
cerchi di servirtene come un mezzo per scoprirmi meno degna del tuo amore,
ma mi ti faranno stimare meno, perché scoprirei che sei capace di
imbrogliarmi. Fidati di me, come io mi fido di te. Dimmi la verità senza
veli.”
“Eccola. Per prima cosa, tu mi credi ricco, ma io non lo sono. Quando avrò
dato fondo alla mia borsa non possederò più nulla. Forse mi credi anche di
nobile stirpe, e invece sono di condizione eguale se non inferiore alla
tua. Non ho alcun talento per guadagnar denaro, alcun impiego e alcun
motivo per sperare che tra qualche mese potrò avere di che mangiare. Non
ho né parenti nè amici, nè diritti da rivendicare, progetti o prospettive.
Tutto ciò che posseggo è la giovinezza, la salute, il coraggio, un po' di
intelligenza, sani e onesti principi e alcune buone nozioni di
letteratura. La mia grande ricchezza è che sono padrone di me stesso, che
non dipendo da nessuno e che non ho paura delle sventure, Tendo anche ad
essere uno spendaccione. Ecco il tuo uomo. Rispondimi, mia bella Teresa.”
“Sappi anzitutto che sono convinta che ciò che mi hai detto è la pura
verità e che nel tuo racconto nulla mi ha stupito, tranne il nobile
coraggio che ti ha indotto a parlarmi. Quanto al resto, fin da quando
eravamo ad Ancona, mi è capitato di giudicarti proprio come ti sei
descritto e, anziché esserne preoccupata, mi sono augurata di non
sbagliarmi, perché se davvero eri come ti immaginavo, potevo sperare di
conquistarti. Ma, insomma, quanto al fatto che sei povero e, pur non
possedendo nulla, sei anche uno scialacquatore, lascia che ti dica che ne
sono contentissima perché, dal momento che mi ami, non potrai disprezzare
il dono che ti farò. Questo dono sono io stessa: mi dò a te così come
sono, sono tua e avrò cura di te. Tu pensa solo ad amarmi, ma ama me sola.
Da questo momento non sono più Bellino. Andiamo a Venezia, e vedrai che
saprò guadagnare di che vivere. E se non vuoi andare a Venezia, andiamo
dove ti pare.”
“Devo andare a Costantinopoli.”
“Andiamoci, Se hai paura di perdermi perché mi credi incostante, sposami,
e così sarò tua anche per la legge. Non dico che se sarai mio marito ti
amerò di più, ma mi piacerebbe essere la tua sposa e poi potremmo
riderne.”
“Benissimo. Dopodomani, al più tardi, ti sposerò, a Bologna, perché voglio
legarti a me in tutti i modi possibili.”
“Sono felice. Visto che a Rimini non abbiamo nulla da fare, domani mattina
ce ne andremo. Ma adesso è inutile che ci alziamo. Mangiamo a letto e poi
facciamo l'amore.”
“Ottima idea.”
Passammo così un'altra notte nel piacere e nella gioia e all'alba
partimmo. Dopo 4 ore di viaggio ci fermammo a Pesato per far colazione.
Mentre stavamo per rimontate in carrozza, arrivò un sottufficiale con due
fucilieri a chiederci il nome e il passaporto. Bellino gli diede il suo,
ma io cercai invano il mio. Trovai le lettere del cardinale e del
cavaliere Da Lezze, insieme alle quali lo avevo riposto, ma, per quanto mi
frugassi addosso, non riuscii a trovarlo. Il caporale ordinò al
postiglione di aspettare e se ne andò a prendere ordini. Di lì a mezz'ora
tornò con il passaporto di Bellino dicendogli che poteva partire, e a me,
invece, in giunse di recarmi dal comandante.
Appena gli fui innanzi, costui mi chiese come mai non avevo il passaporto.
“L'ho perduto.”
“Non si perde un passaporto!”
“Sì che si perde, tanto è vero che io l'ho perduto.”
“Lei non può proseguire.”
“Vengo da Roma e vado a Costantinopoli per portare una lettera del
cardinale Acquaviva. Ecco qui la lettera con il sigillo del cardinale.”
“Io posso solo farla accompagnare dal signor de Gages”.
Trovai il famoso generale in piedi, circondato da il suo stato maggiore.
Gli ripetei ciò che avevo già detto al comandante e lo pregai di lasciarmi
proseguire il viaggio.
“Tutto quello che posso fare è di trattenerla finché le arriverà da Roma
un nuovo passaporto con il nome che lei ha dichiarato. La disgrazia di
perdere un passaporto può capitare solamente ad uno sventato e il
cardinale imparerà così a non affidare incarichi a degli sventati.“
Detto questo, diede ordine di farmi scrivere a Roma per chiedere un nuovo
passaporto e poi di tenermi agli arresti nel posto di guardia fuori città,
che si chiamava Santa Maria.
Alla stazione di posta, dove fui subito condotto, scrissi al cardinale
l'incidente che mi era capitato e lo pregai di spedirmi, senza perder
tempo, un passaporto direttamente al ministero della Guerra. Quindi,
mentre la lettera partiva con una staffetta, corsi ad abbracciare
Bellino-Teresa che era desolata per il contrattempo, le dissi di andarmi
ad aspettare a Rimini e la costrinsi ad accettare cento zecchini. Lei
avrebbe voluto rimanere a Pesaro, ma non acconsentii. Così, dopo aver
fatto scaricare il mio baule ed averla vista partire, mi lasciai
accompagnare al posto di guardia.
In momenti del genere anche il più ottimista degli uomini entra in crisi,
ma con un po' di stoicismo riesce sempre a rimanere a galla. Ciò che più
mi fece soffrire, in verità, fu l'angoscia di Teresa che, vedendomi
strappare dalle sue braccia proprio quando dovevamo cominciare a stare
insieme, faticava a trattenere le lacrime. E certo, se non l'avessi
convinta che ci saremmo rivisti entro una decina di giorni a Rimini, non
si sarebbe mai risolta a partire, ma, del resto, anche lei si era resa
perfettamente conto che non sarebbe stato opportuno per lei rimanere a
Pesaro.
A Santa Maria, l'ufficiale mi portò nel corpo di guardia, dove, per
sedermi, dovetti usare il mio baule. L'ufficiale era un maledetto catalano
che non si degnò nemmeno di rispondermi quando gli dissi che, avendo del
denaro, desideravo un letto e un domestico che mi procurasse ciò di cui
avevo bisogno. Dovetti passare la notte su un mucchio di paglia, senza
aver mangiato nulla, in mezzo ai soldati catalani.
Era la seconda volta che passavo una notte così, dopo averne passate un
paio deliziose. Il mio Genio, evidentemente, si divertiva a trattarmi in
quel modo per procurarmi il piacere di far dei paragoni. E questa è una
dura scuola, ma di sicuro effetto, soprattutto per gli individui che hanno
un po' dello stoccafisso.
Quando volete chiudere la bocca a qualche filosofo da strapazzo, che osi
dirvi che nell'esistenza dell'uomo la somma dei dolori supera quella dei
piaceri, chiedetegli se vorrebbe una vita senza dolori e senza piaceri.
Non vi risponderà o vi darà una risposta tortuosa, perché, se risponde di
no, vuol dire che ama la vita, e, se l'ama, vuol dire che la trova
piacevole, e piacevole non potrebbe essere se fosse dolorosa; se invece ti
risponde di sì, ammette di essere uno sciocco, perché identifica il
piacere con l'indifferenza. Quando soffriamo, non soffriamo mai senza
nutrire piacevole speranza che la nostra sofferenza abbia fine, e in
questo non ci sbagliamo mai perché, per male che vada, finiamo con
l'addormentarci e durante il sonno sogni lieti ci consolano e ci calmano.
Quando invece godiamo, il pensiero della sofferenza che inevitabilmente
verrà dopo la gioia non ci turba mai. Il piacere, dunque, quando c’è, è
sempre puro; il dolore, invece, è sempre temperato.
Tu hai vent'anni. Viene il Padreterno e ti dice:
“Ti concedo ancora trent'anni di vita, quindici tutti dolori e quindici
tutti piacevoli. Scegli. Vuoi cominciare con i quindici tristi o con
quelli piacevoli?”
Confessa, caro lettore, che, chiunque tu sia, risponderesti:
“Dio mio, voglio cominciare con i quindici anni di dolore. L'attesa dei
quindici anni piacevoli che mi restano mi darà la forza di sopportare le
mie pene.”
E a questo punto, caro lettore, puoi trarre le conclusioni anche da te.
L'uomo saggio, credimi, non è mai completamente infelice: anzi, come dice
Orazio, è sempre felice, “nisi quum pituita molesta est.” Ma l'uomo che ha
sempre il raffreddore?…
Vita di Casanova
A cura di Arsace
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