(Arpino, 1684 - Napoli, post 1745)
Gli anni del Viceregno austriaco a Napoli (1707-1734) furono fecondi
per il mecenatismo musicale e videro il fiorire di una straordinaria
stagione artistica di eccezionale qualità, che si dispiegò nell’arco di
quasi un trentennio, con grandiose rassegne musicali destinate a scandire,
ad un ritmo incessante, le numerose cerimonie istituzionali e
aristocratiche.
All’ombra della squisita sensibilità estetica dell’alta società
napoletana, la personalità artistica di
Domenico Gizzi divenne molto
ricercata per l’allestimento di cantate e serenate, che testimoniavano la
magnificenza della Corte vicereale, l’altissimo livello della musica e la
suggestione dello spettacolo privato, affidato ai linguaggi raffinati della
poesia, del canto e dell’ingegno scenografico di spiccata impronta
teatrale.
Nel periodo di massimo fulgore della spettacolarità cortigiana e
privata, infatti, la scena vicereale provvedeva ad esaltare l’aspetto
celebrativo di occasioni solenni, grandiose ed effimere, ispirate al fasto
eroico ed al gusto mitologico.
Con il termine di Serenata si designava una cantata di ampie
proporzioni, destinata ad una platea convenuta nel Palazzo Reale o in una
dimora nobiliare, per celebrare speciali eventi delle grandi casate o
ufficiali e solenni occasioni, come feste onomastiche e compleanni reali e
vicereali, matrimoni, battesimi e ricorrenze religiose.
Tratti da soggetti mitologici o arcadico-pastorali, i testi poetici
delle Serenate facevano emergere l’elemento
celebrativo-encomiastico, evidentissimo nella struttura formale, affidata,
per l’ambito musicale, ad un notevole organico vocale e strumentale.
I migliori compositori dell’epoca venivano chiamati dalla Casa
Reale e dalle grandi famiglie dell’aristocrazia partenopea a comporre le
partiture di queste Azioni per Musica, spesso divise in due atti, e
strutturate secondo uno schema fisso, ormai classico: ad una sinfonia
strumentale introduttiva, seguivano un Prologo e vari recitativi alternati
ad arie, con brillante e vivace accompagnamento di orchestra, in ripieno di
concerto.
Ai virtuosi di maggior rilievo erano affidate le arie in cui potevano
fare bella mostra delle loro qualità, sviluppando ampie fioriture vocali,
insieme a serene e dolci melodie, che secondavano pienamente i gusti del
pubblico colto a cui l’opera era rivolta. Tutte col da capo ed in
forma tripartita, le arie costituivano un momento privilegiato per gli
abbellimenti e le ornamentazioni vocali, che esaltavano i pregi stilistici
dei celebrati cantanti.
Un ulteriore conferma della grande rinomanza e della stima di cui
godeva Domenico Gizzi presso la Corte e l’alta nobiltà partenopea è
costituita dalle numerose occasioni in cui, con assoluta certezza, è
documentata la sua presenza fra i cantanti di importanti Serenate,
eseguite a Napoli. SERENATA
A QUATTRO VOCI/da cantarsi nel Real Palazzo/il dì 4 dicembre 1718/
giorno in cui si festeggia/il nome/Dell’Eccellentissima Signora /BARBARA
D’ERBESTEIN / Contessa di Daun, Principessa di Teano /e Vice Regina in
questo Regno /di Napoli./In Napoli 1718./ Nella Stampa di Michele Luigi
Muzio. Sul
frontespizio dell’unica copia a stampa di questa Serenata giunta
fino ad oggi, conservata attualmente nella Biblioteca Statale di Lucca, è
annotato il nome di Nicasio Pastor Arcade, con ogni probabilità
l’autore del testo poetico. A tergo del frontespizio sono indicati gli
interpreti e l’autore della musica. Domenico Gizzi, "Musico
della Real Cappella", interpretava il ruolo di Mercurio;
Gaetano Borghi, Giove; Anna Dotti, Venere e Giovanni Battista
Minelli, Giunone. Il compositore della musica, Domenico Sarro, a
quell’epoca si era già posto
in chiara luce con numerose composizioni drammatiche e religiose. Nella
Prima Parte della Serenata a Domenico Gizzi è affidata un’Aria,
mentre nella Seconda Parte, egli canta in un Duetto con Venere ed in un
Recitativo ed un’Aria, verso la conclusione del componimento. Proprio
a quest’ultimo lungo brano cantato da Domenico era affidato l’aspetto
celebrativo della festa musicale, in cui l’allusione al soggetto
mitologico si concludeva con un grazioso inno alla fama ed alle virtù della
Viceregina nel giorno del suo genetliaco, senza trascurare le devote lodi e
gli ossequiosi elogi per l’Imperatore austriaco Carlo VI e per il Viceré
Wirich Philiph Lorenz, Conte di Daun e la sua illustre consorte.
Gran
Padre delle cose, Gran
Rettor delle sfere, Dalla
terra ritorno, Che
ben tutta veloce ho corso intorno; Non
già le prische, dolorose, e fiere A
te reco novelle, Mà
più liete, e più belle. Sappi,
che su gran parte Dell’Italia
guerriera Tornata
è omai la gloria sua primiera; Che
vi regna il gran CARLO, E
con sì giusto zelo, Che
mentre io vi scorrea Ancora
mi parea d’essere in Cielo. La
spiaggia poi ben fortunata, e amena Del
Fiumicel Sebeto, E’
per opra di lui Di
cotanta Virtù ricolma, e piena, Che
Regno mai così felice, e lieto Sol
per virtù dell’immortal VIRRICO, E
della Donna altera, Che
con VIRRICO impera, Che
ben non conoscea Se
fosse Donna, o Dea.
Più
che Ninfa, e che Sirena
La palesa la Beltà.
Di
valore ha l’alma piena,
Che si scopre eccelsa Dea;
Nè
altra creder la potea,
Se di raggi ornata và." (1)
Questi strumenti di autocelebrazione e di esaltazione della potenza
degli Asburgo, erano concepiti in funzione di una perfetta fusione,
nell’espressione drammatica, delle ragioni della politica con l’arte
musicale e lo spettacolo di Corte.
I grandiosi festeggiamenti per il genetliaco imperiale si
concludevano con la messa in scena di una imponente Serenata, eseguita nel
Palazzo Reale, dagli interpreti di maggior prestigio del momento, alla
presenza del Viceré, della Corte e della nobiltà.
Le celebrazioni del 1720 riservarono a Domenico Gizzi una importante
apparizione sul prestigioso palcoscenico del Teatro musicale di Corte, sul
quale egli incontrò il gradimento generale.
Il nostro virtuoso cantò, infatti, nello "Scherzo Festivo
tra le Ninfe di Partenope", fatto rappresentare, dal Viceré, il
Cardinale Wolfango Annibale di Schrattembach (1660-1738), nella gran Sala
detta dei Viceré del Palazzo Reale, trasformata in Teatro, per festeggiare
il Compleanno dell’Imperatrice d’Austria Elisabetta Cristina (2).
Il testo della composizione, scritto dal poeta Domenico Gentile, era
stato posto in musica da Domenico
Sarro.
Accanto a Domenico, che interpretava il ruolo di Dorinda,
cantarono Marianna Benti Bulgarelli, detta la Romanina, nel primo
ruolo, Santa Marchesini, la modenese Margherita Salvagnini ed il basso
Don
Antonio Manna.
In questo momento musicale, grandioso ed esclusivo, l’azione
drammatica seguiva un modello ormai consolidato, in cui i motivi celebrativi
ed encomiastici erano inseriti in una ambientazione pastorale con precisi
richiami ai temi mitologici partenopei.
Nella Serenata, i brani affidati a Domenico Gizzi furono molto
gratificanti per un virtuoso del suo valore: nella Prima Parte, un’aria,
un duetto ed il tutti finale; nella Seconda Parte un’aria, poi un
quartetto con la Bulgarelli, la Marchesini e la Salvagnini, quindi un’aria
encomiastica in cui il sopranista faceva chiara allusione alla sospirata
nascita di un erede per il Trono Imperiale d’Austria ed il Coro finale.
"Ant. e Dor. a 2 Venticello
che soave
Sussurrando intorno spiri
Ant.
Fiumicello che frà l’erbe
Dor.
Mormorando qui t’aggiri
Ant.
Deh
ristora
Dor.
Deh conforta
A 2
Il mio penar.
A 2
Vanne, vola al caro bene
Dì che torni, e le mie pene
Venga lieto a temperar
" (3). Gli
interpreti in abiti sgargianti, disposti al centro della Scena teatrale,
seduti e circondati dall’orchestra, facevano sfoggio delle loro apprezzate
qualità artistiche e dei loro straordinari talenti melodici, nel ricco
rifrangersi di temi e situazioni sceniche proprie del miglior repertorio di
allusioni metaforiche e celebrative del genetliaco imperiale. La
stessa sera, nel Palazzo Reale venne rappresentato GIASONE,
Componimento
per Musica (7), per festeggiare questo evento che negli intendimenti
della politica austriaca avrebbe dovuto rafforzare sommamente i legami fra
la corte viennese e l’alta nobiltà napoletana. Il
testo era il risultato di un adattamento compiuto da Luigi Maria Stampiglia
di un componimento poetico scritto da Silvio, suo padre, posto ora in musica
da Nicola Antonio
Porpora. L’argomento si ispirava alla vicenda mitologica
di Giasone, Cavaliere di Argo, che, con l’aiuto dei suoi compagni, tentò
la conquista del Vello d’Oro, a cui l’Ordine cavalleresco imperiale si
richiamava apertamente.
Nella parte conclusiva, come era solito costume, facevano ingresso nell’opera i temi celebrativi ed encomiastici, secondo cui il popolo partenopeo sotto l’impero di Carlo viveva un rinnovato "secol d’oro" e l’alta concessione dell’Imperatore costituiva un singolare premio per la fedeltà alla politica imperiale mostrata dalle classi dominanti del Viceregno. E proprio al personaggio di Giasone toccava l’alto onore di introdurre nel componimento il senso metaforico di tutta la Cantata: il Vello d’Oro, nelle "Età future" avrà "maggior lustro" nel Sacro Romano Impero, divenendo il simbolo di un glorioso Ordine Cavalleresco. L’omaggio al gran Monarca "Carlo il Grande assiso in Soglio" e gli elogi per il Viceré Conte di Harrach, inviato dall’Imperatore nella Città partenopea, scaturivano da un profondo senso di fedeltà, che esaltava le glorie imperiali in ossequio alle regole della vita cortigiana, e faceva riecheggiare diffuse e condivise significazioni letterarie, musicali e politiche, nell’apoteosi di questa occasione scenica. "E colà, dove corre Il
placido Sebeto in grembo al Mare, Del
posseduto Regno Da
CARLO a sostener sue veci eletto Verrà
un’Eroe si degno, Che
Astrea già mai si scosterà dal lato. Questi
di già fregiato D’un
Raggio del gran Vello Che
d’Oro splenderà di CARLO in petto, Ornerà
di sua mano D’altri
Raggi di quello Quei
Sudditi, che degni Renderà
di tal premio il suo Sovrano. Sotto
un sì dolce Impero
Dall’uno, e l’altro polo
Il Popol più straniero
Lieto, e contento à volo
A soggettarsi andrà.
E
CARLO il FORTUNATO
De Sudditi l’amore
Premiando a tutte l’ore
Grato
Si mostrerà" (8).
Con il minuzioso coordinamento del cerimoniere Marchese Vitelleschi,
cantarono due prime donne, insieme a Domenico Gizzi, un suo allievo (con
ogni probabilità Gioacchino Conti) ed al grande tenore Francesco Tolve.
La paga ricevuta da Domenico Gizzi per questa interpretazione fu di
13,50 ducati, la stessa somma percepita dal suo allievo.
I fortunati invitati alla cerimonia nel Palazzo Reale poterono
assistere ad uno spettacolo certamente di assoluto riguardo, poiché,
insieme alla musica, gli interventi scenografici apportati alla Gran Sala,
confermarono l’importanza e l’opulenza senza pari dell’allestimento:
ricchi drappi di damasco e di broccato turchino con galloni in oro, i
ritratti dell’Imperatore Carlo VI d’Asburgo e dell’Imperatrice
Elisabetta Cristina con sfarzosa cornice, l’Aquila Imperiale con la
Corona, lo Stemma del Vicerè Conte Luigi Tommaso Raimondo d’Harrach, 10
arazzi, la statua della Fama, tre altre statue, 64 puttini, stoffe di tela
d’oro, 6 grandi lampadari di cristallo, 22 lumiere di cristallo, 46
cornucopie dorate per le torce! Per il Prof. Paologiovanni Maione, i due ruoli femminili furono sostenuti da Lucia Facchinelli e Maria Teresa Cotti, in quella stagione stelle acclamate del Teatro San Bartolomeo (10).
L’organico dell’orchestra impegnata nella Serenata era davvero
imponente: due cembali, a cui sedevano Francesco Mancini e
Leonardo Leo,
trentadue violini, sei violette, due violoncelli, quattro contrabbassi, due
arciliuti, due trombe, sei oboi, quattro corni da caccia e un fagotto. La potente Casata dei Pignatelli volle celebrare degnamente la concessione dell’altissimo riconoscimento a Don Diego, Duca di Terranova e Monteleone, con la rappresentazione di "EGERIA/ Favoletta drammatica/da umiliarsi all’alto Soglio/ dell’augustissimo Imperatore/ CARLO VI./Da Margherita Pignatelli/Duchessa di Terranova e Monteleone/in divoto ossequioso ringraziamento,/per l’onor conceduto al Duca/suo marito/dalla Clementissima/Cesarea Maestà/ decorandolo dell’insigne Ordine del/Toson d’Oro/E da cantarsi in casa della medesima Duchessa" (11).
Dall’unica
copia del libretto oggi nota apprendiamo che il testo poetico era a firma di
Girolamo Torriani e la musica di Giuseppe di Majo, organista della Real
cappella. Domenico Gizzi, interpretava Partenope, Gioacchino
Conti,
nel ruolo di Egeria, Domenico Annibali, al servizio del Re di
Polonia, Minerva,
Francesco Tolve, Sebeto. L’allestimento del fastoso apparato
scenico venne affidato a Nicola Canale e il libretto, secondo il Grossi, era
stato "Dato alle stampe da Ricciardi, in quarto col rame del
Teatro estemporaneo" (12). I
temi encomiastici riecheggiano già nella Prima Parte nel dialogo fra Minerva,
Sebeto e Partenope. Minerva celebra il prestigioso Ordine
Cavalleresco del Toson d’Oro, che per clemenza imperiale ora impreziosisce
la più eletta aristocrazia napoletana, "fu eletto/Di aureo
Vello a freggiar il petto". Questo intenso momento si conclude
con un’aria arcadica cantata da Domenico Gizzi: Dall’uno
all’altro Polo
Spieghi la Fama il volo,
E canti il nostro onor. In
questa, e in quella sponda
Con dolce Eco risponda
La Fedeltà, l’Amor" (13). Nella
Seconda Parte della Cantata, al termine di un recitativo encomiastico, Partenope
riprende i temi della devozione e dell’omaggio alla Casa Regnante
d’Austria ed al suo massimo rappresentate in Napoli, il Viceré Conte di
Harrach, con suggestioni simboliche ed allegoriche degne degli avvenimenti
esaltati.
"PART.
Il ravvisi ben tu diletta Egeria
Il saggio Reggitor di nostra Gente? SEB.
Siede al più folto in mezzo
Luminoso
drappel de’ Semidei
Con la
gentil sua Real Donna accanto
Di
Lamagna, e del Mondo esempio e vanto. EGER.
L’uno, e l’altra io ravviso;
E piego
all’alta Coppia
Ossequiosa
il pie, la fronte, e ‘l viso. PART.
Quel bel desio, che suole
Spingere il Cervo al fonte,
La Rondinella al nido,
Il Navigante al
lido
S’accenda nel tuo cor
Vieni, e favella.
Con
placido sembiante
Il
grand’Eroe t’attende,
E in Ciel per te risplende
Un tropp’alto favor
D’amica Stella" (14).
"Giove in Cielo, e CARLO in Terra
Sempre Augusto in Pace, e in Guerra
Trionfando regnerà" (15). In
ogni caso, la perdita di molte fonti, avvenuta nel corso dei secoli, anche a
causa delle vicissitudini storico-politiche del Regno di Napoli, si deve
soprattutto al fatto che la cantata e la serenata, per la loro natura di
genere colto e raffinato, erano destinate ad un pubblico piuttosto
ristretto, con diffusione prevalentemente manoscritta, e, solo in casi
particolari, date alle stampe.
L’intensa
e proficua relazione artistica che univa il Musico ad Alessandro
Scarlatti,
Nicola Antonio Porpora, Leonardo
Leo e Domenico Sarro, ci porta a ritenere
che il cantante sia stato un interprete privilegiato delle Cantate da
Camera e Spirituali di questi fecondi autori, che
peculiarmente in tale genere raggiunsero degli esiti di straordinaria
ricchezza stilistica ed espressiva. Nel contempo, poiché Domenico Gizzi era considerato "il migliore soprano" della Cappella di Corte, si giudicava necessario rimediare alla sua assenza con l’ingaggio di un altro soprano a discrezione del Maestro della Real Cappella Francesco Mancini, obbligando assolutamente Gizzi a rientrare a Napoli per "li primi di Quadragesima, per assistere alle Funzioni tutte, e particolarm.te a quelle della Settimana Santa" (16).
Vai a 6 - Musico della Real Cappella del Tesoro di San Gennaro
A cura di Il Principe del Cembalo - Rodelinda da Versailles Arsace da Versailles - Faustina da Versailles Arbace - Alessandro - Andrea & Carla Un enorme grazie a Avvocato Stefano Gizzi Nei restauri, ancora in corso, con Stefano Gizzi, hanno collaborato e si ringraziano: 1) il Maestro Ebanista COLOMBO VERRELLI, che ha restaurato le porte, ne ha realizzato di nuove sempre secondo lo stile dell'epoca, ha restaurato alcuni mobili fra cui lo scrittoio del Musico Domenico Gizzi ridotto in cattivo stato. 2) il Maestro FRANCESCO BARTOLI, pittore e decoratore, per la scelta dei colori, la definizione degli stessi con le tonalità assolutamente dell'epoca e l'arredamento delle sale con materiali, carte e stucchi, rigorosamente d'epoca. |