(Arpino, 1684 - Napoli, post 1745)
Alcune note di riflessione e di approfondimento sul talento musicale
di Domenico Gizzi, sui rapporti che intrattenne con i colleghi e i
compositori e sui teatri in cui
cantò, conferiscono una idea più completa dell’artista ed un significato
più ricco alla sua personalità, a cui tanto merito veniva riferito sin dai
contemporanei. Gli anni della piena maturità artistica del sopranista sono caratterizzati non solo dall’attività di apprezzato maestro di canto, ma anche da una carriera intensa e di successo che, per alcuni lustri, lo vide impegnato nei maggiori teatri italiani, interprete di ruoli importanti nel periodo di massimo fulgore dell’opera seria barocca.
Dopo il debutto napoletano che lo rivelò al pubblico, la sua fama si
diffuse rapidamente e non mancarono ricche offerte di ingaggi, in compagnie
di canto prestigiose, per le sale di spettacolo italiane del massimo
rilievo.
La sua eleganza di stile nelle apparizioni teatrali, ne facevano un
autentico principe delle scene e davano certamente maggior pregio alle sue
interpretazioni, guadagnando l’ammirazione ed il plauso degli spettatori.
Con versatilità seducente, Domenico Gizzi raggiunse, ben presto, la
piena padronanza delle spezie più ricercate dell’arte vocale barocca,
corrispondendo felicemente alla fiducia ed al favore che un vastissimo
pubblico gli riservava. La nobiltà nella recitazione, che esaltava un gusto
e una finezza che ben si addiceva alla grandezza eroica dei personaggi
interpretati, l’esattezza nella declamazione, la perfezione formale
condotta all’estremo, una felicità di suono e di perizia tecnica, che
esaltavano le sue doti naturali, gli meritarono significativi successi e
grandi soddisfazioni.
La sua carriera vide gli albori, certamente sotto i migliori auspici,
nel momento in cui la vita musicale e teatrale napoletana raggiungeva un
livello di vero splendore, con una abbondanza di spettacoli e una vitalità
culturale nel genere del teatro musicale, che si giovava di un apporto
raffinato e classico che non aveva paragoni in nessuna città europea.
Le prime notizie certe, relative alla presenza di Domenico Gizzi,
(alcune volte chiamato anche Egizio), sulle scene napoletane, risalgono al
1707, anno in cui l’artista canta in due opere serie dei musicisti
napoletani Giuseppe de Bottis e Giuseppe Porsile, nel
Teatro di San Giovanni
dei Fiorentini già noto nel secolo precedente e destinato, nel Settecento,
principalmente alla musica (1).
Il Teatro aveva iniziato la sua attività musicale nel 1705, con la
rappresentazione di Candaule re di Lidia, di
Domenico Sarro.
Distrutto da un incendio nel 1711, venne poi riaperto nel gennaio 1713.
Nel momento in cui si affermava in campo nazionale l’opera dei
maestri napoletani, la Città di Venezia, pur rassegnata ad un occàso
politico e ad un declino inarrestabile, si confermava, tuttavia, un grande
centro musicale, ospitando numerose rappresentazioni di eccezionale qualità
artistica, esempi non facilmente superabili, che confermavano la persistente
vitalità dell’opera tardo barocca in terra lagunare.
Esaminando il repertorio di due prestigiosi teatri veneziani si
rileva come, in quattro importanti stagioni liriche, nel giro di pochi anni,
Domenico Gizzi, si impose nei drammi in musica quale interprete di sicuro
valore, ammirato dal gran pubblico veneziano per l’arte della recitazione
e per un timbro di voce luminoso, intenso e penetrante.
Negli anni 1724 e 1725, egli cantò sulla scena del Teatro di San
Cassiano, il primo teatro pubblico d’opera in Occidente, proprietà della
Famiglia Tron, che conservava intatto il suo prestigio, impegnando
scenografi, architetti e musicisti di grido, come nel caso della prima
rappresentazione della Didone abbandonata di
Tomaso Albinoni. Negli anni 1728 e 1729 Domenico Gizzi fu nuovamente a Venezia, dove cantò nel Teatro di San Giovanni Grisostomo, il teatro d’opera più importante di Venezia, fino alla metà del Settecento, fatto costruire dai fratelli Grimani.
Descritto nelle cronache contemporanee come uno dei migliori teatri d’Europa
e realizzato secondo la concezione teatrale del Palladio e del Sansovino,
scintillante di lumi e di cristalli, adornato di ricchissime decorazioni e
con ordini di palchi sontuosi, ospitò molte fra le migliori e più
interessanti produzioni di autori famosi.
La frequenza degli spettacoli, l’alto livello del repertorio, la
magnificenza dei virtuosismi vocali dei cantanti, la perizia degli
strumentisti, insieme agli elementi pittorici e geometrici della
scenografia, testimoniavano una fervida ed intensissima vita teatrale,
facendo della Città lagunare una della capitali più celebrate di questo
genere musicale. Nelle sere di spettacolo, una gran folla affluiva nei
teatri, per esprimere, con vivacità e garbo, la propria ammirazione per i
cantanti, senza sconfinare negli eccessi di fanatismo, riscontrabili in
molte altre città italiane.
A Venezia si avevano tre stagioni d’opera: una invernale, o di carnevale, dal 26 dicembre al martedì grasso; la stagione di primavera, per la Fiera della Sensa, cioè per la Festa dell’Ascensione; la stagione autunnale dal 20 novembre alla prima decade di dicembre.
"Domenico Gizzi
[...] come si ritrova presentemente nella Città di Venezia per fare la
recita dell’opera del Carnevale dell’entrante anno 1729 [...] supplica
degnarsi concedere al supplicante il permesso di permanere in detta Città
di Venetia" (2).
In questo primo periodo, in cui vanno delineandosi i caratteri teneri
e solenni della poesia metastasiana e la limpida purezza del verso raggiunge
un perfetto equilibrio, che aspira ad un ideale di classica semplicità, il
nome di Domenico Gizzi compare in alcune prestigiose creazioni, iniziando da
L’Angelica e La Galatea, due cantate o azioni per musica,
che contribuirono a rivelare il Metastasio come poeta nel periodo
napoletano.
Grandi riconoscimenti e vasta risonanza ebbe il Gizzi, quale
applaudito interprete nelle prime rappresentazioni della Didone
abbandonata, dramma per musica del Metastasio, messo in scena per la
prima volta, nel 1724, al teatro San Bartolomeo, con musica di Domenico
Sarro, "rivelazione d’un’arte nuova e d’un nuovo
teatro"
(3). Nel libretto, che segnava una data fondamentale nella storia dell’opera settecentesca, il poeta offriva un’anima musicale al gran tema drammatico dell’amore contrastato, immerso in un mondo idilliaco di raffinate effusioni arcadiche e di nitide forme. Nel testo poetico, i caratteri e le varietà degli atteggiamenti espressivi si scioglievano in una successione di recitativi e di arie, in cui la melodia ed il canto avevano un assoluto predominio, con effetti altamente drammatici. L’armonico ed elegiaco orizzonte della poesia metastasiana esprimeva i moti dell’anima, con accenti sgorganti dai nobili sentimenti e dalle forti passioni umane: il senso dell’onore, il valore delle armi, morte, tradimento e gelosia.
Con assoluta abilità, il poeta sospendeva la catastrofe fino al III
atto, e poi, con il precipitare dell’azione, trascinava gli spettatori al
senso dell’inevitabile tragedia, magnificamente resa sulla scena dall’avanzare
delle fiamme nel palazzo di Didone.
Domenico Gizzi fu interprete di ben tre prime versioni della Didone,
rappresentate a Venezia, Reggio Emilia e Roma e poste in musica da alcuni
fra i maggiori autori dell’epoca: Tomaso Albinoni,
Nicola Antonio Porpora
e Leonardo
Vinci.
Queste rappresentazioni, davvero memorabili, per qualità della
musica, delle voci dei virtuosi e per ricchezza scenica, imposero il
Metastasio come maggiore librettista ed autore drammatico dell’epoca.
Sia a Venezia che a Reggio Emilia, la compagnia di canto era di
altissimo livello e prestigio indiscusso, certamente una delle migliori del
secolo, con Marianna Benti Bulgarelli, detta la Romanina, nella parte di Didone,
Nicola Grimaldi, detto Nicolino, in quella di Enea e Domenico Gizzi
nella parte di Araspe. Per
l’allestimento di questa rappresentazione, Domenico attese in Venezia l’arrivo
della Romanina e del Metastasio. La compagnia di canto si trattenne per
molti giorni nella Capitale veneta, dove le applauditissime rappresentazioni
si alternavano a feste e splendidi ricevimenti, offerti dalla nobiltà agli
impresari, ai cantanti e musicisti. Questa importante affermazione servì a
Domenico per rafforzare i suoi legami con il bel mondo di quella
sontuosissima sede dell’opera in musica, anche in vista dei futuri impegni
artistici che lo avrebbero legato, negli anni successivi, al maggior teatro
della Serenissima.
La Didone abbandonata con musica di
Porpora, costituiva una
prima assoluta appositamente commissionata per la rinomata Stagione della
Fiera dell’Ascensione del 1725, che richiamava nella Città un pubblico
variegato ed attentissimo. La Sala del Teatro Pubblico di Reggio Emilia era
provvista di un sontuoso palco ducale e di ottocento posti, con splendide
decorazioni del soffitto e dei palchi, opera dei fratelli Bibiena. Una
viaggiatrice del XVIII secolo, la Du Bocage, assistette ad uno spettacolo
teatrale a Reggio Emilia in occasione della Fiera. Meravigliata del grande
sfarzo con cui in quella piccola cittadina venivano inscenate
rappresentazioni teatrali tanto costose, si sentì rispondere che gli
impresari, nelle sei settimane di spettacolo, perdevano 70.000 lire sull’opera,
ma ne guadagnavano ben 100.000 sul gioco nel ridotto del teatro, occupazione
preferita dagli spettatori negli intervalli fra i vari atti. Il
dramma per musica del Metastasio venne dedicato a Sua Altezza Serenissima
Rinaldo I d’Este, Duca di Reggio, Modena e Mirandola, mentre le
scenografie della rappresentazione "tutte di nuova invenzione",
furono affidate al celeberrimo architetto Francesco Galli-Bibiena, che con
la sua consumata arte incarnava l’ideale tipico dell’età barocca, di
ampliare gli spazi reali del palcoscenico, illudendo sull’esistenza di
altri ambienti “ad angolo”, in cui motivi architettonici con palazzi,
archi e colonnati erano sviluppati in prospettiva, l’uno nell’altro,
allo scopo di colpire gli spettatori con "maravigliosi apparati".
La visione scenografica aveva una ragione estetica di illimitata
suggestione, che poneva al centro del gusto barocco il piacere figurativo
degli scenari illusori e sontuosi, attraverso la magìa degli effetti
prospettici e pittorici. Il libretto della rappresentazione, ricco di deliziose incisioni con piccoli motivi ornamentali ed amorini, testimonia lo splendore dell’allestimento, datato, nella dedica degli impresari, al 29 aprile 1725.
Roma, certamente, fu una delle capitali dell’opera italiana, non
meno infiammata di passione per il
melodramma e per il virtuosismo canoro di
Napoli e di Venezia, e vide il fiorire di spettacoli musicali in alcuni dei
teatri più belli sorti nel Settecento. che in un breve
volger d’anni
avevano acquistato un’autentica rinomanza internazionale. I
palchetti erano assiduamente frequentati dal clero, dalla nobiltà romana e
dai diplomatici accreditati presso la Santa Sede. In
quest’opera, che vide il primo trionfo di Domenico Gizzi sul prestigioso
palcoscenico dell’Alibert, il virtuoso interpretò il ruolo di Masinissa,
facendo conoscere i suoi talenti in due arie del Primo Atto (scene IX e
XVII), due nel Secondo (scene IV e XI) e due nel Terzo (Scene II e X). Il
ricordo della rappresentazione restò a lungo nel mondo artistico romano, a
motivo dell’esordio in teatro di Carlo Broschi detto Farinelli e
per l’apparizione sul palcoscenico, nel corso dell’opera, di un
magnifico “carro trionfante”, trainato da due finti elefanti, al
cui interno agivano quattro uomini nascosti alla vista. Come
ricorda Alberto De Angelis, nella stagione suddetta, i palchetti del Teatro
vennero occupati dai migliori nomi della società romana, fra cui il
Cardinale Pietro Ottoboni, il Re d’Inghilterra Giacomo III Stuart (che
occupava con la sua piccola corte tre palchetti del 3° ordine), il marchese
Oratio Lancellotti, Don Mario Chigi, il Cardinale Acquaviva, il Cardinale da
Cugna, il Cardinale Pereira, il Gran Contestabile Principe
Colonna, il
Principe Carlo Albani, il Principe Borghese, il Principe Altieri, il
Principe Santa Croce, il Principe Carbognana, il Duca Lante, il Duca d’Acqua
Sparta, la Principessa di Piombino, Don Alessandro Colonna, Mons. Filippo
Vaini, il Senatore di Portogallo, il Ministro Cesareo rappresentante della
Casa Imperiale d’Asburgo, il Ministro di Francia e l’Ambasciatore di
Venezia.
Per
la realizzazione delle scene della Didone abbandonata, fu chiamato in
Roma uno degli scenografi più celebri e rinomati d’Italia, Alessandro
Mauro, appartenente ad una famiglia di valentissimi architetti, ingegneri e
pittori, attiva nei maggiori teatri europei per oltre un secolo. Al grande
maestro fu affidata sia la direzione tecnica dell’allestimento che l’invenzione
e la pittura delle nove “Mutazioni di Scene”, per le quali il
Mauro ideò grandiosi elementi architettonici e motivi ornamentali di
splendida eleganza, con decorazioni folgoranti di cornici a volute, festoni,
drappeggi, luci e fregi, che esaltarono magnificamente i vari momenti dell’opera. Le decorazioni, le comparse furono dell’estrema
magnificenza, alla romana. L’orchestra corrispondente ... Ogni scena fu un
continuo batter di mani. Ma chi potrebbe spiegare la commozione della
platea, quando la donna innamorata, sentendosi parlar di nozze, e parlar con
orgoglio dal Mauritano insolente, s’alza sdegnosa dal trono, e lo licenzia
con quelle risolute parole
del
mio soglio e del mio cor?
Araspe, confidente di Iarba, re de’ Mori e amante di Selene
è un personaggio di grandi virtù morali, che effonde, con il canto,
elevati e leggiadri sentimenti, facendo sfoggio di manierate e nobili
sentenze. Nei
recitativi e nelle varie arie a lui affidate nella rappresentazione
veneziana del 1725, fin dalle prime pagine dell’opera, Araspe esalta
proprio il valore prezioso della "bella virtù",
indicata come "sostegno del mondo" ed ornamento degli
uomini e degli dei (7).
Nella rappresentazione di Reggio Emilia della Didone,
Metastasio e Nicola Porpora operarono alcuni piccoli adattamenti che
riguardarono il personaggio di Araspe nel modo seguente. Nel Primo
Atto, rimaneva l’aria della Scena VIII, mentre l’aria della Scena XIII
era trasferita alla Scena XIV, sempre con lo stesso testo. Nel Secondo Atto,
l’aria di Araspe della Scena IV era soppressa e sostituita con un
Duetto fra Araspe e Selene, "Chiedi in vano amor da
me", mentre l’altra aria di Araspe era anticipata alla
Scena XI. Nel Terzo Atto, le due arie, con lo stesso testo, erano disposte
la prima nella Scena IV e la seconda nella Scena XIII (8). La rappresentazione romana della Didone ebbe una interessante peculiarità: poiché Domenico Gizzi era uno dei beniamini della platea cosmopolita ed esigentissima del pubblico del Teatro romano, Metastasio provvide a modificare appositamente il ruolo di Araspe per il cantante, scrivendo quattro nuove arie, in sostituzione di quelle interpretate dal Gizzi a Venezia e a Reggio Emilia, al fine di esaltare, con maggiore evidenza, questo personaggio scenico, permettendo al cantante di effondersi in accenti di purissima vocalità. Diamo ora il testo delle nuove quattro arie scritte appositamente dal Metastasio e cantate da Domenico Gizzi nella rappresentazione romana della Didone abbandonata (9).
"Restano confermate la centralità del ruolo di Araspe - nuovamente interpretato dal Gizzi - e le attenzioni dedicate al cantante, poiché delle arie modificate o sostituite dal Metastasio quattro riguardano questo personaggio. In particolare, il poeta si sofferma sulla fisionomia del suddito e dell’amante fedele, sottolineandone il senso dell’onore e della virtù, difesi anche a prezzo della vita [Atto I, Scena XIV]… In questa prospettiva, Metastasio costruisce l’aria di Araspe a fine scena e quella del secondo atto (sc. 4), dedicata con dignitosa pateticità al suo amore non corrisposto; mentre la conclusione della scena 12 (atto II) sintetizza il carattere di questo personaggio" (10).
A tal proposito, è particolarmente significativo il quadro completo
dei pagamenti effettuati in favore dei virtuosi, che interpretarono le due
opere in musica della stagione di Carnevale del 1726, la Didone
abbandonata di Leonardo Vinci e Il Valdemaro di
Domenico Sarro:
Accanto a Domenico Gizzi cantarono le voci più belle risuonate nei
teatri europei del Settecento e nomi celebri che divennero, ben presto,
beniamini del pubblico e sopranisti leggendari. Innanzitutto, è d’uopo ricordare il nome di Carlo Broschi, detto Farinelli, il maggiore sopranista del XVIII secolo, che figura più volte accanto a quello di Domenico Gizzi fin dagli esordi napoletani e poi in importanti rappresentazioni teatrali. Di oltre vent’anni più giovane, il genio del canto barocco testimonierà in ogni occasione una profonda amicizia e un sincero rispetto per questo suo collega più anziano, da lui ricordato sempre con affetto ed ammirazione.
Il vero trionfale debutto di Farinello avvenne a Roma, nel gennaio
1722, al Teatro Alibert, in due opere, Sofonisba, di Luca Antonio
Predieri e Flavio Anicio Olibrio, di
Porpora, in cui Gizzi appare fra
i principali protagonisti.
Farinello e Gizzi, furono fianco a fianco, nella stessa compagnia di
canto, anche negli anni successivi e, precisamente, nelle stagioni del 1723
e 1724 a Roma e nella trionfale stagione del 1729 a Venezia. Il fascino che
promanava dalla figura del Farinello e la sua voce angelica e quasi
soprannaturale, resero queste rappresentazioni davvero memorabili,
consacrando in campo internazionale il sopranista come primo cantante del
secolo.
Anche altri famosi virtuosi furono al fianco di Domenico in
importanti rappresentazioni, accolte con grande favore, che contribuirono a
scrivere alcune fra le pagine più significative della storia dell'opera
italiana del Settecento: -
Niccolò Grimaldi, detto Nicolino, Cavaliere della Croce di San
Marco, presente in numerose stagioni, (1724-1725, 1728 e 1729), a Venezia,
Firenze, Reggio e nuovamente a Venezia, nelle maggiori rappresentazioni in
cui figurava anche il Gizzi, che lo considerò sempre un insigne collega ed
un amico carissimo, degno di particolare stima ed affetto. Nel 1708, Nicola
Grimaldi si recò a Londra, dove si trattenne per cinque anni, interpretando
con successo straordinario numerose opere serie dei compositori Giovanni e
Antonio Maria Bononcini, Francesco Gasparini, Francesco Mancini e Giovanni
Maria Ruggieri. Nel 1711, al Teatro di Haymarket, egli fu l’acclamatissimo
protagonista del dramma di Giacomo Rossi, Rinaldo, la prima opera
composta in Inghilterra da Georg Friedrich Haendel. -
Giovanni
Carestini, nato nel 1705, "virtuoso dell’Em.mo
Cardinale Cusani", in onore del quale prese il nome d’arte di Cusanino,
che canta insieme al Gizzi e a Farinello nella
Sofonisba di Luca Antonio Predieri e in Flavio Anicio
Olibrio di Porpora, nel 1722 a Roma. -
Gaetano Berenstadt, Musico della Real Cappella di Napoli, collega del Gizzi
in alcune importanti stagioni, come quella del 1726 a Roma, nella Didone
del Vinci e ne Il Valdemaro di Sarro. Il sopranista interpretò, a
Londra, il ruolo di Tolomeo, nella prima rappresentazione dell’opera seria
d’argomento eroico Giulio Cesare in Egitto, di
Georg Friedrich
Haendel, data al King’s Theatre ad Haymarket, il 20 febbraio 1724. -
Giovanni Battista Minelli, Virtuoso di S.A.S. l’Elettore di Baviera,
contralto bolognese, allievo di Francesco Antonio Pistocchi, celebre per la
tecnica perfetta e per l’espressività delle sue interpretazioni, che
canta con Gizzi a Napoli, nella Serenata a Quattro Voci, musicata da
Domenico Sarro. In seguito, Minelli fu al servizio della Corte imperiale d’Austria,
interpretando, nel 1731, il ruolo del protagonista nella prima opera scritta
dal Metastasio a Vienna, Demetrio, posta in musica dal Vice Maestro
della Cappella Imperiale, Antonio Caldara. -
Il tenore napoletano Francesco Tolve, per molti anni attivo sulla scena
internazionale, nelle rappresentazioni teatrali e di corte, che affianca il
Gizzi in alcune cantate e serenate celebrative eseguite a Napoli. Questo
cantante, nella stagione 1736-37, cantò a Londra al fianco di Farinelli,
nel King’s Theatre ad Haymarket. Alunno del Conservatorio dei Poveri di
Gesù Cristo, ammesso nel 1740 nella Real Cappella di Napoli, Francesco
Tolve fu uno dei maggiori tenori della prima metà del XVIII secolo,
interprete, nel corso della sua
lunga e prestigiosa carriera, di ruoli importanti nelle opere dei grandi
compositori dell’epoca, sia in Italia che all’estero. -
Il basso comico Gioacchino Corrado, Musico della Real Cappella di Napoli,
che canta al fianco di Domenico Gizzi nella stagione del 1707 al Nuovo
Teatro di San Giovanni dei Fiorentini di Napoli, nel ruolo di Floro
ne Il Ritorno di Ulisse alla patria, musicato da
Giuseppe Porsile e
nel ruolo di Moscone nel dramma per musica Mitilene, Regina delle
Amazzoni, musicato dal napoletano Giuseppe de Bottis. Nelle stagioni
successive, Corrado, in coppia con la bolognese Santa Marchesini, si
specializzerà negli intermezzi comici, rappresentati fra un atto e l’altro
nei drammi per musica in voga in quegli anni.
-
Il tenore Annibale Pio Fabri, detto Annibalino, che canta nel ruolo
di Mentore, nel Telemaco di Alessandro Scarlatti e in Berenice
Regina d’Egitto di Porpora e
Domenico Scarlatti nel Carnevale del
1718.
Il musicista che compare maggiormente negli spettacoli d’opera in
cui Domenico Gizzi ha un ruolo significativo è Nicola Antonio
Porpora.
Questo compositore di gran merito, quasi coetaneo del Gizzi, poiché
nato in Napoli nel 1686, fu tra gli allievi del Conservatorio dei Poveri di
Gesù Cristo, in qualità di convittore, nella classe di Gaetano Greco.
Secondo le notizie raccolte da Charles Burney, egli avrebbe ricevuto lezioni
private sui princìpi dell’arte del canto italiano e dell’armonia da
Alessandro Scarlatti, la cui reputazione nell’insegnamento era altissima.
Attivo quale Maestro al Conservatorio di Sant’Onofrio, il Porpora
si dedicò, ben presto, al pari del Gizzi, all’insegnamento privato del
canto, istruendo molti fra i più celebri cantanti del XVIII secolo, come
Carlo Broschi, detto Farinello, Antonio Hubert, detto Porporino,
Gaetano Majorano, detto Caffarelli, Felice
Salimbeni,
Emilia Molteni,
Regina Mingotti e Caterina Gabrielli.
I dati biografici di sicura affidabilità fanno risalire l’inizio
di questa amicizia privilegiata fra il Porpora e il Gizzi al periodo della
loro formazione musicale nell’ambiente dei conservatori napoletani e all’epoca
dei loro primi servizi musicali nelle chiese e nelle cerimonie pubbliche, in
cui sicuramente entrarono in stretto contatto. Comunque, per l’ascesa dei
musicisti napoletani di quella generazione, fu determinante il clima
politico e culturale instauratosi a Napoli con l’avvento del Viceregno
austriaco, nel 1707, che favorì l’immensa fortuna del Porpora nella
produzione dei drammi per musica di impianto arcadico e del Gizzi nell’insegnamento
e nella interpretazione dell’opera italiana tardo-barocca. L’intesa
del cantante con questo fecondo autore iniziò con l’allestimento romano
di Berenice,
Regina d’Egitto,
messa in scena al Teatro Capranica nella stagione del Carnevale del 1718,
composta in collaborazione con Domenico Scarlatti e dedicata alla Contessa
Ernestina Dietrechstein, moglie del Conte di Gallas, Ambasciatore austriaco
a Roma. In
questo dramma per musica, Gizzi interpreta il ruolo di Alessandro,
giovane e fiero principe egizio, educato a Roma, che vuole conquistare la
Regina Berenice d’Egitto e sua promessa sposa, con le sole armi dell’amore.
L’attenzione degli spettatori è tenuta viva da un intenso dualismo,
presente in tutto il corso dell’opera, che vede contrapposti Gizzi, nel
ruolo di Alessandro intento a conseguire la vittoria morale dell’amore
e dell’innocenza sugli intrighi politici dettati dalla potente politica di
Roma e Fabio, interpretato dal grande tenore Annibale Pio Fabri, che
rappresenta, invece, la ragion di Stato e le grandi mire di Roma.
Nella Scena VI del Terzo Atto, nel corso di un concitato confronto con Fabio, il Principe Alessandro con un intenso recitativo a cui segue un’aria sentimentale, confessa che il suo cuore, seguirà la legge dell’Amore e non quella della ragion di Stato. E nella parte conclusiva del recitativo, sempre rivolto a Fabio canta con fierezza le seguenti parole:
La collaborazione con il Porpora continuò a Roma anche negli anni successivi del 1722-1723, in cui il Gizzi fece parte della prestigiosa compagnia di canto del Porpora, nelle rappresentazioni al Teatro Alibert.
Il dramma per musica Flavio Anicio Olibrio, su libretto di
Apostolo Zeno e Pietro Pariati, rappresentato al Teatro Alibert nella
stagione di Carnevale del 1722 segnò l’esordio sulle scene romane di
Carlo Broschi, detto il Farinello. Nell’opera, Domenico interpretava il
ruolo di Olderico, Principe Goto, mentre Farinello appariva in scena
nei panni femminili di Placidia, figliola di Valentiniano III e
amante del generale romano Flavio Anicio Olibrio. Di significativa
attrattiva, in quest’opera del Porpora, sono la vibrante Scena XV,
conclusiva del I atto, affidata a Domenico Gizzi e la Scena IX dell'atto
terzo, in cui si esibirono con un recitativo ed un’aria ciascuno Farinello
e Gizzi, rivaleggiando nelle linee vocali di un universo magico, nel genere
sentimentale ed amoroso.
In
seguito, il Metastasio affidò al Porpora la composizione della musica per
il suo nuovo dramma per musica Ezio, rappresentato per la prima volta
il 20 novembre 1728, nella Stagione autunnale del famosissimo Teatro di San
Giovanni Grisostomo a Venezia. Nella
lettera dedicatoria del libretto, indirizzata al Conte Luigi Raimondo d’Harrach,
Viceré del Regno di Napoli, il responsabile del Teatro, Domenico Lalli
confermava gli stretti legami esistenti fra la Corte vicereale partenopea ed
il mondo musicale veneziano, ponendo ben in luce che questo attesissimo "Drammatico
Componimento" era stato appositamente scritto "da
Celebre, e Famoso Poeta" per le scene del San Giovanni
Grisostomo (15). In
quest’opera, a Domenico Gizzi venne riservato il ruolo di Valentiniano
III, personaggio di primo piano, accanto a quello del protagonista Ezio,
interpretato da Nicola Grimaldi, detto Nicolino. Con i suoi “affetti”
davvero regali, solenni e magnanimi, al personaggio scenico interpretato dal
Gizzi, ben corrispondevano alcune Arie, sostenute da magnifiche melodie
vocali, fra cui quella posta nel cuore dell’opera, a chiusura del II atto,
in un momento privilegiato del dramma e l’aria che riassume con maestria i
valori morali e a cui è affidata la fine dell’opera.
Nel dramma Semiramide riconosciuta, a
Domenico Gizzi venne
affidato un ruolo non di primissimo piano, quello di Sibari,
confidente e amante di Semiramide, che comunque gli consentì di porsi in
evidenza con quattro arie, disposte nel corso dei tre atti dell’opera. Nel
periodo di queste opere interpretate a Venezia da Domenico Gizzi, il Porpora
risiedeva nella città lagunare, in qualità di Maestro nel Conservatorio
musicale femminile, dell'Ospedale degli Incurabili. I suoi drammi per musica
erano giudicati fra le migliori creazioni nel genere dell’opera eroica,
per la sapiente scrittura musicale e l’incantevole effusione lirica,
esempi emblematici di uno stile italiano efficace ed espressivo.
Questa serie di titoli
su cui abbiamo notizie certe, induce a pensare ad un legame diretto, non
solo di natura professionale, ma di fiducia e di sincera considerazione
reciproca, fra il Porpora e il cantante, apprezzato interprete nelle prime
rappresentazioni dei melodrammi che il maestro componeva e metteva in scena,
su commissione dei principali teatri d'Italia.
Nella stagione del carnevale del 1718, Alessandro Scarlatti ottenne
una licenza dalla Cappella Reale di Napoli, per recarsi a Roma, a dirigere
la prima rappresentazione di una delle sue ultime opere, il Telemaco,
prodotta per il Teatro Capranica e dedicata al Conte di Gallas, Ambasciatore
austriaco presso la Santa Sede. Modificato nel palcoscenico e nell’illuminazione da Filippo Juvarra, con una pianta a U e 6 ordini di 27 palchi ciascuno, questo teatro, noto per la sontuosità degli allestimenti scenici, era frequentato da un vasto e raffinato pubblico di cardinali, diplomatici esteri e nobili, con il consueto corteggio di galanteria. Situato nei pressi della Chiesa di Santa Maria in Aquiro, in un antico palazzo della nobile Famiglia da cui prendeva il nome, il Teatro Capranica, ricco di ornati e di splendide dorature, viveva un momento particolarmente florido.
Autore del libretto del Telemaco fu una vecchia conoscenza di
Scarlatti, il letterato Carlo Sigismondo Capeci (1652-1728), socio dell’Arcadia
e segretario della Regina di Polonia Maria Casimira, vedova del Re Giovanni
Sobieski, durante gli anni della sua fastosa e contrastata residenza in
Roma. Dal punto di vista degli apparati scenici, questo drammatico componimento costituiva un trionfo delle splendide scenografie del barocco romano più maturo, con ben nove mutazioni di scena, ideate dall’architetto Antonio Canevari e dipinte da Giovanni Battista Bernabò, a cui si univano grandiose macchine sceniche di gusto seicentesco in vari momenti del dramma, opera del Cav. Lorenzo Mariani di Todi, che destarono lo stupore e l’ammirazione degli spettatori. Nel Primo Atto, ad esempio, comparivano in scena il Carro di Nettuno trainato da Tritoni ed altri Mostri Marini e il Carro di Minerva sopra le nuvole. Nel Terzo Atto, il Colosso di Atlante sosteneva il globo del Cielo, che, aprendosi, mostrava Minerva ed altre deità sui loro troni. Fra i balli, quello dopo il Secondo Atto, mostrava dei Vasi di fiori che si mutavano in Fontane con gli Uccelli e poi in Giardiniere!
Per questo, Alessandro affidò il ruolo principale di Telemaco
a Domenico Gizzi e lo condusse con sé a Roma. Scarlatti scelse così un
cantante di sicuro talento, già suo allievo nel periodo di formazione e da
molti anni a suo diretto contatto nella Real Cappella di Napoli, ben
conscio, quindi, delle reali esigenze artistiche del maestro e della sua
intensa ricerca di una feconda sintesi, rivelatrice di un geniale magistero
inventivo, fra il patrimonio stilistico ereditato dagli autori del passato e
le poliedriche esigenze musicali del barocco più maturo.
Gizzi, dunque, partecipò come interprete ad una autentica “sfida
fra giganti”, che vedeva fronteggiarsi con le armi della musica due
insigni maestri italiani, (padre e figlio!), in un cimento artistico
memorabile.
Possiamo davvero immaginare il clima delle prove del melodramma e la
perizia minuziosa di Alessandro, nell’allestire "la centesima
nona Opera Teatrale da lui composta" (17), come assicurava il
libretto!
Il Telemaco appartiene all’ultima produzione drammatica del
maestro, in cui egli utilizza i recitativi accompagnati per cesellare, con
raffinatezza, i momenti di maggiore tensione emotiva dell’azione scenica.
In questi recitativi, l’orchestra accompagna la voce del cantante,
ed interviene con propri interludi, fra le frasi vocali, come nella
scena XI del I atto. Sempre per la struttura orchestrale, fra gli strumenti
a fiato, il corno viene trattato come strumento “obbligato”, svincolato,
cioè, dalla mera funzione di accompagnamento e chiamato a valorizzare, in
alcuni momenti dell’opera, l’intensità espressiva e l’efficacia
drammatica, con il fiorire di una linea melodica di sinuosa morbidezza.
Queste due opere furono le ultime che il Bononcini presentò sulle
scene italiane, alla vigilia della sua partenza per Napoli, dove seguì il
Conte di Gallas, nominato Viceré dall’Imperatore austriaco. Alla morte
del Viceré, avvenuta il 25 luglio 1719, poche settimane dopo il loro
trasferimento nella città partenopea, Bononcini decise di recarsi a Londra,
dove era stato chiamato a ricoprire la carica di Direttore Musicale, accanto
ad Attilio Ariosti e
Georg Friederich Haendel, della Royal Academy of Music,
fondata sotto gli auspici del Re d’Inghilterra, Giorgio I.
Nella pomposa ed aulica Lettera dedicatoria del libretto, "All’Eccellenza
del Signor Wincislao, Conte di Galasso, Ambasciadore Ordinario di S.M.C.C.
alla Santa Sede", l’autore, l’Accademico Quirino Gaetano
Lemer, mostrava di apprezzare il valore del Bononcini ed i legami del
compositore con l’illustre diplomatico austriaco, noto per il suo amore
per il teatro musicale:
Anche
il Diario di Roma, nell’edizione del 15 febbraio 1719, riferì il
pieno successo conseguito dalla Favola Pastorale Erminia, ponendola
fra le "tre opere tutte bellissime" che avevano
impreziosito la stagione teatrale romana del Carnevale di quell’anno (22).
L’Etearco ebbe l’onore di venire alla luce per comandamento
Augustissimo, e comparve fortunatamente in Vienna sù le Scene della Corte
Imperiale alla presenza della Clementissima Casa d’Austria. Ora
esponendosi nel Teatro della Pace alla vista di Roma tocca all’E.V. il
patrocinarlo, perchè essendo egli Creatura di un Cesare gloriosissimo, è
impegno della Vostra Cesarea rappresentanza il proteggerlo" (23).
In
questo dramma per musica del Salvi, ispirato al V Canto dell’Orlando
Furioso dell’Ariosto, Domenico Gizzi era chiamato a cantare nelle
vesti di Ariodante, Principe Vassallo e amante della Principessa
Ginevra, una figura ideale per una serie di arie d’azione e di
sortita ben disposte nella trama dell’opera, che si segnalava per le
tonalità e le atmosfere notturne vagamente preromantiche (26).
La vita culturale di Palermo viveva un momento di grande vivacità,
dovuto alla presenza di un singolare musicista Emanuele Rincon d’Astorga,
Barone dell’Ogliastro e di uno dei massimi compositori dell’epoca, il
figlio d’arte Domenico
Scarlatti, aggregato al sodalizio dei Musici di
Santa Cecilia e forse incaricato della revisione dell'opera. La
partecipazione all’evento offrì al sopranista un’occasione per
rinsaldare i vincoli di amicizia e di affetto con il giovane Scarlatti,
quasi suo coetaneo, formatosi in Napoli, negli stessi anni del cantante,
sotto la ferrea disciplina artistica del padre Alessandro.
La dimora di Domenico Gizzi in terra siciliana non fu breve né
occasionale (27). Gli studiosi napoletani Francesco Cotticelli e
Paologiovanni Maione, hanno rinvenuto importanti notizie sulla presenza del
Virtuoso della Real Cappella di Napoli nel Teatro d’opera di Messina, “La
Munizione”, nel periodo a cavallo tra il 1719 e il primo semestre del
1720:
"Il 14 dicembre del 1719 Gizzi chiede licenza “humilmente,
come essendo stato chiamato per il Teatro di Messina dal Signor Vice Rè ...
per rappresentare l’opera in musica”, la richiesta è accettata ed
eseguita il 16 dello stesso mese; la partenza avviene prima delle festività
natalizie “riducendosi tutta la mancanza” presso il servizio alla
Cappella “alla sola notte di Natale” e l’assenza
prevista “fino alla seconda settimana di quaresima acciò nella
Settimana Santa non faccia mancanza”. Domenico Gizzi non tenne fede alla
scadenza datagli ed il 27 aprile del 1720 scriveva “come ritrovandosi in
Messina con licenza per recitare le opere ... viene hora apprettato di
recitare un’altra opera che deve farsi” e pertanto chiede una deroga
della licenza fino a maggio". (28).
Secondo il Prof. Saverio Franchi, le splendide e grandiose
scenografie che, nel corso dei tre atti, prevedevano ben 13 “Mutazioni
di Scene”, furono curate dal celebre architetto Francesco
Galli-Bibiena.
Giudicato fra le migliori composizioni del maestro, questo dramma per
musica ebbe un lietissimo incontro, con applaudite repliche che assicurarono
al nome del loro autore una celebrità assoluta ed un posto distinto fra
tutti i compositori teatrali del XVIII secolo. Come
riferisce Charles Burney, l’opera Farnace ebbe un successo così
grande che il Vinci fu incaricato di fornire allo stesso teatro un dramma
per musica all’anno, fino al 1730, epoca della morte del musicista (29).
Nella luminosa stagione del Carnevale del 1724, accanto al trionfale Farnace del Vinci, un secondo dramma per musica, Scipione, musicato dal bolognese Luca Antonio Predieri, confermò la magnificenza impareggiabile degli allestimenti presentati al pubblico romano dal prestigioso Teatro Alibert. In quest’opera,
Domenico Gizzi fece
ugualmente conoscere il valore della sua bellissima voce e la sua arte
squisita, cantando nel ruolo di Lucindo, personaggio a cui era
affidato il maggior numero di arie, ben sette, così disposte nel corso del
dramma: tre nel Primo Atto, fra cui quella conclusiva, tre nel Secondo ed
una nel Terzo. Nel cuore del Secondo Atto, inoltre, era posto un terzetto,
affidato ai virtuosi più acclamati del momento: Domenico Gizzi, Luca
Mengoni, nel ruolo di Scipione e Carlo Broschi, detto Farinello, nel
ruolo di Salonice, mentre nella vibrante Scena XII del Terzo Atto, l’intenso
duetto fra Gizzi e Farinello, si concludeva con un ampio pezzo a quattro, in
cui intervenivano Luca Mengoni e Filippo Finazzi, nel ruolo di Elvira. Fra
le arie cantate da Domenico Gizzi, rivestiva un particolare interesse quella
conclusiva della Prima Scena del Terzo Atto ed indicata nell’ultima pagina
del Libretto, come variazione al testo originario, un’aria di notevole
pathos, nella quale erano posti in luce i caratteri salienti del personaggio
eroico interpretato dal virtuoso, combattuto tra l’amore per Salonice
e le virtù dell’onore e dell’amicizia per Scipione:
Una cronaca di questa stagione di Carnevale all’Alibert venne
pubblicata dalla Gazzetta di Napoli nel numero 10 del 29 febbraio
1724. Secondo l’informato giornale partenopeo, che riferiva notizie
dirette provenienti dall’Urbe, il clamoroso successo del dramma Farnace
aveva oscurato la seconda opera, al punto tale da imporre una
sospensione delle repliche di Scipione, in favore di una ripresa del Farnace
nelle ultime sere di Carnevale, con alcune nuove arie appositamente
composte dal Vinci. L’opera venne accolta nuovamente con vivissimi
applausi e consensi dal pubblico romano, che apprezzò particolarmente la
magnifica interpretazione del Farinelli e del Gizzi:
Nel dramma per musica Arminio, che segnò una tappa importante
della sua carriera artistica, consolidando la sua reputazione in campo
nazionale, Domenico Gizzi divise i caldi applausi del pubblico fiorentino,
di fronte ad una platea aristocratica e raffinata, con alcuni virtuosi di
chiarissima fama, come Nicola
Grimaldi, detto Nicolino, Antonia Margherita
Merighi e Maria Teresa
Cotti.
Nel Secondo Atto, un’aria nella Scena VII e nel Terzo Atto due
arie, una nella Scena X e l’altra nella Scena XIII. Domenico
poté così far valere le sue qualità di finezza interpretativa in alcuni
importanti momenti dell’azione drammatica, che attirarono il vivo
interesse del pubblico e consentirono al cantante di scolpire la fisionomia
del personaggio con una grande varietà di affetti. Fra questi momenti
privilegiati spiccava l’aria conclusiva del Primo Atto, destinata a
brillare per i caratteri più spiccatamente patetici e cantabili:
Nel
corso del Terzo Atto, Domenico non aveva esitato ad inserire un’aria
diversa da quella stampata nel testo originale del libretto, cantando
probabilmente una cosiddetta Aria di Baule, che, secondo la moda di
quei tempi, l’artista portava sempre con sé e teneva in serbo per gli
spettatori e nella quale era sicuro di farsi ammirare per le sue qualità
migliori di virtuosismo.
Sul palcoscenico di questo teatro, il musico interpretò due opere su
libretto di Apostolo Zeno, La Griselda e Scipione nelle Spagne,
entrambe poste in musica dal Maestro Pietro Vincenzo Chiocchetti, nella
stagione di primavera del 1728 (34). Al fianco di Domenico, sosteneva i
ruoli principali di Griselda e di Sofonisba, il grande
soprano modenese di origine francese, Anna Maria Lodovica d’Ambreville
(1693-1760 circa), al culmine di una prestigiosa carriera internazionale, "Virtuosa
di Sua Maestà Cesarea" l’Imperatore Carlo VI d’Asburgo.
Domenico Gizzi fu uno dei principali interpreti nell’opera Catone in Utica, rappresentata a Venezia, per il Carnevale del 1729, posta in musica da Leonardo Leo, che costituì il primo incontro del musicista salentino con la poetica metastasiana. L’allestimento ricco e fastoso
tenne cartello per molte sere nel Teatro Grimani di San Giovanni Grisostomo,
riscuotendo con sommo plauso un ottimo successo, sia per la musica e le
scenografie ben curate che per il valore eccelso dei sopranisti Farinello,
Nicolino e Gizzi, a cui il pubblico tributò un autentico omaggio di
applausi, lodi e acclamazioni. In
questo soggetto drammatico, Domenico Gizzi sostenne un ruolo molto
impegnativo che richiedeva grandi qualità sceniche, quello di Cesare,
destinato a vivere, nel corso dei tre atti, un continuo e sottile
confronto-contrasto con Catone, interpretato da Nicolino, in un ritmo
incalzante delle scene. A
Cesare, presente sul palcoscenico in vari momenti del dramma, sono
affidate cinque arie, in cui egli si rivela magnanimo e consapevole dell’alto
compito affidato a Roma di governare il mondo. Nel vagheggiare i destini
imperiali della Città Eterna, Cesare mostra una fermezza d’animo
ed un amor di patria, uniti ad un sincero rispetto ed una profonda
ammirazione per il Console Catone. Non mancano momenti in cui Cesare
può manifestare il suo intenso e vivo amore per la figlia di Catone, Marzia,
interpretata sulle scene dalla stella del Teatro, il grande soprano
veneziano Lucia Facchinelli.
Nelle
figure di ornamento, con cui si eseguivano gli “abbellimenti”,
cioè i vocalizzi che concorrevano ad impreziosire l’aria, la voce di
Gizzi (negli ultimi anni della sua carriera in teatro) ascendeva fino al sol4,
suscitando l’invenzione di nuovi tratti di virtuosismo, che in alcune arie
(soprattutto nella sezione A, la più fiorita, che veniva ripresa nel da
capo) occupavano fino alla metà delle misure cantate. In L’Eupatra, Domenico Gizzi interpreta il ruolo di Farnace, figura di fiero e vittorioso principe, a cui sono affidate cinque arie ed un duetto e che si pone in luce fin dalla prima scena dell’opera, conclusasi appunto con un interessante pezzo di bravura, dove il personaggio "buon guerriero", manifesta lodevoli sentimenti di magnanima fedeltà nei confronti del suo Re, Mitridate, al cui favore egli si dichiara debitore di ogni onore:
L’Aria
di Farnace della Scena VII del Secondo Atto riprende felicemente i
classici temi amorosi e sentimentali dell’Arcadia:
Negli
anni fecondi della sua maturità artistica, Francesco Feo presentò al
pubblico romano una sua pregevole opera seria, Andromaca, su libretto
di Apostolo Zeno, assicurandosi una vasta reputazione come compositore
drammatico. Dedicato
al Cardinale Niccolò Coscia, questo dramma per musica (secondo la cronaca
di Francesco Valesio) venne per lui rappresentato, a titolo di prova
generale, la sera del 3 febbraio 1730, nel Palazzo del Marchese Felice
Abati, Cameriere Pontificio di Cappa e Spada e Governatore Militare dell’Umbria
in Via del Corso e andò in scena per la prima volta al Teatro Valle la sera
del 5 febbraio (39). Considerato dal Burney uno dei più grandi maestri napoletani del suo tempo, Francesco Feo era nato a Napoli nel 1691. Secondo alcune fonti dell’Ottocento, fra cui il Grossi e il Florimo, egli sarebbe stato allievo di Domenico Gizzi nel canto e nella composizione, ricevendo ugualmente una solida educazione musicale nel Conservatorio di Santa Maria della Pietà dei Turchini (40). Francesco Feo era tenuto in gran pregio da molti compositori della sua epoca, fra cui Christoph Willibald Gluck che utilizzò il Kyrie di una messa del maestro per un coro della sua opera Telemaco, riproducendone poi il tema nella sinfonia del dramma Ifigenia in Aulide.
In Andromaca, che mostra una fusione fra i mezzi espressivi
tradizionali e le nuove tendenze che saranno proprie dello stile galante, le
qualità salienti di questo autore si evidenziano nella preminenza data ai
valori del canto e della voce umana, il respiro e l’ampiezza delle sue
arie ed in particolare dell’aria col da capo, con temi ricercati e
imponenti virtuosismi vocali. A molto giovò, per l’ottima riuscita dell’opera,
l’interpretazione avvincente resa sul palcoscenico da Domenico Gizzi nel
ruolo principale di Pirro, figlio di Achille, Re dell’Epiro e
amante di Andromaca, che seppe esprimere appieno il clima eroico e
magniloquente in cui il dramma era immerso, fin dal primo atto, confermando
la geniale vitalità del barocco musicale italiano.
Ugualmente due sono le opere del Vice Maestro della Cappella Ducale
di Venezia, Antonio Pollarolo, musicista di gran fama all’epoca per le sue
opere teatrali: Cosroe, rappresentata con vivo successo, a Roma al
Teatro Alibert, nel Carnevale del 1723, con grandiose scenografie ispirate
al mondo persiano e L’Abbandono di Armida a Venezia, l’ultima
sera del Carnevale, il 1 marzo 1729.
Dedicatosi all’insegnamento del canto e alla formazione dei giovani
virtuosi, egli conciliò i suoi doveri di Primo Sopranista della Cappella
Reale con preziose apparizioni negli Oratori e nelle Cantate, seguendo da
vicino, con premura paterna, i grandi momenti della vita artistica del suo
allievo prediletto, Gizziello, che egli di sovente accompagnava nei luoghi
delle sue esibizioni, aiutandolo a vincere la sua naturale ritrosia e
timidezza.
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Celebre Maestro di Canto
A cura di Il Principe del Cembalo - Rodelinda da Versailles Arsace da Versailles - Faustina da Versailles Arbace - Alessandro - Andrea & Carla Un enorme grazie a Avvocato Stefano Gizzi Nei restauri, ancora in corso, con Stefano Gizzi, hanno collaborato e si ringraziano: 1) il Maestro Ebanista COLOMBO VERRELLI, che ha restaurato le porte, ne ha realizzato di nuove sempre secondo lo stile dell'epoca, ha restaurato alcuni mobili fra cui lo scrittoio del Musico Domenico Gizzi ridotto in cattivo stato. 2) il Maestro FRANCESCO BARTOLI, pittore e decoratore, per la scelta dei colori, la definizione degli stessi con le tonalità assolutamente dell'epoca e l'arredamento delle sale con materiali, carte e stucchi, rigorosamente d'epoca. |