(
1653 - 1697 )
dalla collezione del
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Civico Museo Bibliografico Musicale, Bologna
La tragedia di un
amore
La carriera di Giovanni Francesco Grossi, detto
Siface fu brillantissima.
Un critico coevo del tempo, Juan Evelyn, dopo averlo ascoltato a Londra, lo
ritenne il miglior cantante del momento.
Acquisì tale alias interpretando il ruolo di Siface, Re di Numidia,
nell'opera Scipione l'Africano di
Francesco Cavalli, opera che ebbe un successo crescente a Bologna,
Firenze, e Roma. L'interpretazione di Grossi fu così intensa ed immedesimata
che gli valse il nominativo "Siface".
La sua carriera lo portò a spaziare dal coro della cappella Pontificia, al
debutto teatrale, al Teatro Tordinona di Roma; fu poi alla Corte dei Savoia
a Torino, alla Corte degli Estensi a Ferrara, cantò nella Cappella Reale e
nei migliori salotti a Roma e Londra.
Durante il periodo in cui Siface si trovava a servizio del Duca di Modena,
si innamorò perdutamente di una bella ed ancor giovane bolognese, Elena
Marsili, vedova del conte Gaspari-Forni.
Ben presto la loro tresca fu di dominio pubblico, giungendo all'orecchio dei
fratelli della vedova: i ricchi e potenti Marchesi Marsili, che risiedevano
a Bologna. Erano molto contrariati che un "guitto e per di più castrato
avesse una relazione sentimentale con la loro sorella: era un'onta, era
disdicevole, era indecoroso per la casata".
Sicchè i fratelli Marsili fecero notare il loro disappunto al Duca di
Modena, inducendolo a licenziare ed allontanare il Siface da Modena. Ma il
Duca che apprezzava moltissimo Siface, suggerì ai Marchesi Marsili di
allontanare Elena e trasferirla a Bologna; in tal modo la lontananza avrebbe
estinto la relazione. Elena Marsili Gaspari-Forni fu confinata in un
monastero, quello di San Lorenzo, e non nel palazzo di Famiglia Marsili: una
"punizione" dei suoi fratelli?
Lo scandalo sembrava rientrato, quando l'amministrazione del Teatro di
Bologna, in procinto di mettere in scena PERSEO del maestro Martelli, affidò
il ruolo principale al cantante di grido di allora: Siface.
Naturalmente era necessario il consenso del duca: l'autorizzazione fu data e
Siface mise piede a Bologna, frequentando il Teatro della città per le
prove.
Immediatamente riallacciò i rapporti con Elena: tale fu la sua
determinazione che riuscì ad avere un salvacondotto per poter accedere al
monastero, dove la contessa era a "pigione" e quindi non vincolata da regole
di clausole monastiche.
L'ira furibonda dei Marchesi Marsili giunse all'orecchio di Siface: essi
minacciavano una tremenda punizione.
Orgoglioso il cantante ribatté che non aveva paura di nessuno, neppure dei
Marchesi Marsili: tuttavia volle rafforzare il suo disappunto affermando che
la vedova era libera di avere relazioni a suo piacimento, dal momento che
aveva raggiunto la maggiore età.
Osò quindi il Siface opporsi ai "padroni di mezza Bologna": era l'incipit
della tragedia.
Un giorno della primavera degli ultimi anni del 1600 viaggiava in una
carrozza con tiro a 2, guidata da un cocchiere e un servitore verso la volta
di Bologna.
Arrivato al ponte che attraversa il Reno, nei pressi di Malbergo, 4 loschi
figuri mascherati e vestiti di nero arrestarono la carrozza, spaventando il
cocchiere.
Obbligarono al cocchiere e al servitore di scendere: erano agitati sì ma in
fondo le rapine erano una cosa "relativamente normale". Essi furono privati
delle pistole e poi furono costretti ad allontanarsi.
Mentre 2 dei cupi figuri, forieri di morte, tenevano stretti i 2 cavalli per
le briglie e sorvegliavano la strada, gli altri 2 si avvicinarono al povero
Siface che annichilito dalla paura non riusciva a proferir favella.
Lo fecero scendere testé dal cocchio, Lo obbligarono a fermarsi sul ciglio
della strada egli esplosero 2 colpi di archibugio alle spalle.
Era morto? no, dimostrò una grande resistenza, probabilmente forse se
fintosi morto restava a terra e fosse passato qualcuno si sarebbe salvato
... troppi se.
Ma i loschi figuri dovevano assicurarsi che fosse morto: si accorsero quindi
in tutto quel sangue che sgorgava che il cantante era ancora vivo, non
ricaricarono le armi, non ebbero un momento di pentimento, non persero
troppo tempo (ricaricare le armi da fuoco era un'operazione che richiedeva
un po' di tempo, lo finirono molto barbaramente: gli fracassarono il cranio
con ripetuti colpi sferrati dai calci dei fucili appena usati per sparargli
alle spalle.
Non contenti frugarono nelle tasche del cadavere: portarono via un orologio
di diamanti ed alcune monete d'oro che consegnarono al servo, intimandogli
di consegnarle alle autorità.
Al cocchiere invece dissero che il cadavere doveva rimanere nella pozza di
sangue nel ciglio della strada e che doveva sparire con la carrozza.
Più tardi la salma fu rinvenuta e condotta a Ferrara, dove per
l'interessamento del commissario duca N.H. Achille Tuccoli, furono celebrati
solenni funerali a cui partecipò gran folla.
Una lapide ricorda il cantante con una semplice scritta, che si può leggere
ancor oggi all'ingresso della sagrestia della chiesa di San Paolo:
IOANNIS FRANCISCI DE GROSSIS -ALIAS SIFACE - 1697.
Furono effettuate delle indagini per scoprire i colpevoli. Tutta l'opinione
pubblica ritenne che i colpevoli fossero i Marchesi Marsili: ma nessuno
riuscì effettivamente a provarlo; è da dire comunque che le autorità di
polizia non osarono arrestare i sospettati, né tanto meno a sottoporli ad
interrogatorio che erano soliti contro la povera gente magari ritenuta
responsabile di furti di galline.
Furono arrestati comunque un servitore e il fratello di costui, tutti e due
a servizio del Marchese Giorgio Marsili: tuttavia essi riuscirono a fornire
alibi inoppugnabili. La conseguenza fu che si rilasciarono per inconsistenza
di prove certe.
Si mormorò che il cocchiere di Siface testimoniò che uno degli assassini
prima di esplodere un colpo di fucile si avvicinò alla vittima e lo schernì
augurandogli, per conto dei Marchesi Marsili, buon viaggio verso l'eternità:
non fu possibile comunque nessun riconoscimento dal momento che come ho
detto erano intabarrati e mascherati.
Il Papa (Innocenzo Pignatelli) intervenne: ordinò l'esilio di Giorgio
Marsili da Bologna.
Elena Marsili Gaspari-Forni dopo un po' di mesi dall'accaduto abbandonò
segretamente il monastero e collezionò molte avventure amorose: una ripicca
verso i fratelli ?
Un quotidiano di Napoli luogo dove Siface godeva di enorme fama verso la
fine del seicento, riportò la novella funesta del tragico assassinio,
sostenendo che "per causa che il musico andava spesso ad intrattenere con il
canto la sorella del detto Marchese contro il suo preciso divieto, essendoci
qualche sospezzione d'onestà". Forse un tentativo di togliere al castrato la
fama di libertino ...
L'assassinio di Siface, generò una serie di investigazioni (caue célèbre) e
le famiglie responsabili vennero implacabilmente perseguite dal Duca di
Modena, anche se il delitto efferato si era compiuto in terra papale, e
anche se molti investigatori erano al servizio del Papa.
Un poeta anonimo del tempo, volle poeticamente attribuire la fine di Siface
alla gelosia di Giove, come si può evincere dal seguente sonetto che ebbe
molto successo nei tempi della vicenda:
Mentre sul Po l'unica voce e chiara
sciogliea Siface, e la virtù di lei
udiasi in quelle sponde, uomini e Dei
vaghi correan pewr ascoltarla a gara.
Giove allor ne giurò vendetta amara
dicendo: "Chi è costui che i regni miei
vuota e costringe? Or te, se pur non sei,
te spoglierò della virtù più rara.
E se l'alto saper d'ogni mortale
maggior ti rende, il tuo sepulcro sia
l'urna del Po, ch'è a Numi ancor fatale!
Oggi la crudeltà sia legge mia,
ché, per gloria del cielo, in me prevale
all'usata equità la gelosia".
A cura di Arsace