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Serenata veneziana
Andromeda: Simone Kermes
Cassiope: Katerina Beranova
Meliso: Anna Bonitatibus
Perseo: Max Emanuel Cencic
Daliso: Mark Tucker
La Stagione Armonica, Sergio Balestracci
(maestro del coro);
Venice Baroque Orchestra, dir.
Andrea Marcon
Archiv (2 CD,
2004)
L’opera che mi accingo a recensire è avvolta dal mistero: quanto c’è di
Vivaldi in
essa?
Munito di coraggio, ho acquistato la registrazione, spinto dalla curiosità
e dalla lista di nomi riportati in copertina. L’unica cosa certa di questa
serenata, composta nel settembre del 1726 per celebrare il ritorno a
Venezia del cardinal Pietro Ottoboni ed eseguita per la prima volta nel
luglio del medesimo anno, è che l’aria “Sovvente il sole” è attribuibile
con certezza a Vivaldi: molti sono gli elementi che hanno permesso di
identificare in lui l’autore, come l’esistenza di disegni delle
scenografie, riconducibili alla mano del celebre compositore. Inoltre,
l’aria propone dei richiami musicali di chiara matrice vivaldiana.
Tuttavia, la mancanza della sua firma, la presenza di sonorità che
ricordano quelle di
Albinoni e di
Porta, e
l’esistenza dell’aria “Un occhio amabile” in manoscritti di altri autori,
non permettono di attribuire una paternità sicura all’opera.
La storia è molto semplice e lineare: Andromeda, liberata da Perseo,
dovrebbe sposarlo, se non fosse per il fatto che il suo cuore batte,
invece, per Daliso, un forestiero che si trova in terra d’Etiopia, luogo
in cui è ambientata tutta la vicenda. Alla fine, però, l’eroe riuscirà a
sposare la giovane, convintasi, a mio parere non del tutto, che l’amore
per il ramingo Daliso non fosse altro che una semplice cotta.
Il ritmo della composizione è incalzante, nonostante al valoroso figlio di
Giove siano assegnate solo due arie e un duetto. Tuttavia, si tratta di
composizioni pregevoli e molto emozionanti, rese ancor più belle
dall’ottima esecuzione del controtenore
Max Emanuel Cencic. Questi è dotato di una voce possente e possiede
una pronuncia quasi ottima, che permette di seguire con facilità i
recitativi. Ascoltandolo, si può ben capire perché ci sia tanta rivalità
tra le mezzosoprano e i controtenori: Cencic ha un timbro singolare e
potrebbe cantare tranquillamente come mezzosoprano! La tecnica è veramente
notevole e ciò si apprezza specialmente nel duetto: non perde colore e non
viene sopraffatto dalle note più acute della soprano, sfoggiando dei
virtuosismi appropriati e mai eccessivi.
Tuttavia, di maggior interesse, a mio modo di vedere, sono le altre due
arie, “Non ha tranquillo il cor” e “Sovvente il sole”, quella sicuramente
più chiacchierata. La prima è un vero godimento: una musica molto
accattivante e la perizia con cui viene eseguita da Cencic la collocano
tra i brani che più rimangono impressi. La curiosità che suscita l’altra,
però, è molta ed è forse anche per questo che può essere considerata la
più bella dell’intero pasticcio. Al primo ascolto ci si accorge subito che
si tratta di un componimento in grado di suscitare forti emozioni. Il
ritmo lento e pacato conferiscono a quest’aria quasi un’aura di sacralità,
ancor più sottolineata dal fatto che in certi momenti si sentono
reminiscenze dello “Stabat Mater”. L’interpretazione di Cencic è quanto
mai adeguata e, con molto gusto, il controtenore mette la sua tecnica al
servizio della musica, introducendo gli abbellimenti vocali in maniera
tale, da non incentrare l’attenzione su se stesso, ma lasciando lo spazio
adeguato alla stupenda composizione. Scelta, questa, quanto mai
produttiva, che permette di mantenere un pathos costante e di focalizzare
l’attenzione anche sull’ottima musica. Nell’ascoltare l’aria si rimane
davvero basiti e non si può far altro che immaginare un tramonto sul mare,
con il sole che sfoggia tutta la sua bellezza nel placido rosseggiar delle
acque.
Senza dubbio, però, il personaggio meglio caratterizzato dell’intera
vicenda è Andromeda, raffigurata come lasciva e voluttuosa. Ed è proprio
questa l’impressione che si ha nell’ascoltare la voce di Simone Kermes,
che dà davvero un’ottima prova delle sue capacità. Lodevoli, infatti, sono
le cesellature belcantistiche che riesce ad inserire in ogni aria senza
annoiare mai e che contribuiscono a delineare in maniera ancor più netta
il carattere della principessa. Tra le arie più difficili ed
impressionanti non si può non citare “Lo so, barbari fati”, in cui la
soprano si lancia in virtuosismi in grado di mettere a dura prova le corde
vocali anche delle interpreti più brave: acuti potenti frammisti ad altri
più soavi rendono il componimento davvero un piccolo capolavoro.
Altre arie, però, tra quelle assegnate alla principessa etiope necessitano
almeno di essere menzionate, non solo per quanto riguarda l’aspetto
tecnico, ma anche per ciò che concerne il testo delle medesime. Mi
riferisco a componimenti, come “Chi è fenice ad ogni foco”, in cui si
assiste al ravvedimento (parziale, a mio modesto parere) di Andromeda, o
come “Mi piace e mi diletta”, in cui la giovane riferisce alla madre,
Cassiope, di amare Daliso, pur non disprezzando il bel Perseo. Ed è
proprio nella discussione tra madre e figlia che assistiamo alla bravura
degli autori, capaci di far intuire immediatamente la differente visione
delle due donne, influenzata, senza ombra di dubbio, dall’età di ciascuna.
Infatti, Cassiope parla, attraverso recitativi, ad Andromeda, tentando di
convincerla a compiere quanto è stato predisposto nei confronti dell’eroe
greco, ed ella, di tutta risposta, controbatte le argomentazioni razionali
della madre con le proprie sentimentali attraverso il canto. Ci troviamo
di fronte, dunque, a una sorta di conflitto generazionale, ad un evento
quotidiano messo in scena, che aiuta, in maniera efficace, il fruitore nel
prestare attenzione all’opera tutta, potendo egli sentire la vicenda come
propria, come vicina a sé e non solo legata al mito. Credo che questo sia,
quindi, un’ottima motivazione per rivalutare il componimento nella sua
interezza, dimenticando, per un attimo, le diatribe che sorgono dietro
alla paternità di questo.
Un altro personaggio ben caratterizzato, quantunque sia a lui lasciato non
molto spazio, è Daliso, interpretato da Mark Tucker. Il suo timbro mi
sembra particolarmente adatto per questo ruolo, dal momento che è alquanto
leggero e, perciò, rispecchia lo spirito di libertà che distingue il
forestiero amato da Andromeda. Egli non è disposto a legarsi
sentimentalmente alla principessa, sebbene non disprezzi il sentimento
della giovane. Tuttavia, il suo desiderio di libertà è troppo grande per
cedere alla passione. In ogni aria a lui riservata, Daliso esprime il suo
parare sull’amore e sulla incostanza di questo. Ed è proprio l’incostanza
dell’amore l’argomento dell’aria “Se una sorta di strali Amor avesse”, che
ritengo la più bella tra quelle del personaggio.
Il tenore esegue le arie con semplicità, rendendole molto ariose e
leggere. Qualche imprecisione sul piano della pronunzia è ravvisabile,
specialmente nell’aria in cui è accompagnato dal coro. La sua esecuzione
non è certamente di quelle che lasciano il segno, anche se, a conti fatti,
sarebbe forse eccessivo chiedere di più.
Katerina Beranova è Cassiope, madre di Andromeda. Costei cerca di porre
rimedio alle problematiche che la figlia ha creato, non ultima quella di
una possibile punizione divina, se non andrà sposa a Perseo. La sua
caratteristica è la razionalità, che adopera da una parte per rincuorare
il buon Perseo e dall’altra per tentare di convincere la figlia a
sposarlo. In particolare, ella cerca di far leva sul suo sentimento di
gratitudine nei confronti dell’eroe e mette in gioco il suo onore nel
tentativo di non lasciare che il nobile figlio di Giove rimanga
amareggiato e parta via, scatenando, così, l’ira del padre degli dei. Nei
confronti della figlia, invece, cerca di imporre il proprio volere,
mettendo anche in gioco la carta del danno personale che potrebbe
derivarle se il matrimonio non venisse celebrato: sarebbe additata come
spergiura! Tuttavia, l’interpretazione data dalla soprano in quest’ultimo
frangente non mi è sembrata del tutto convincente. Molto più a suo agio,
invece, mi è parsa nei momenti in cui esprime la sua gratitudine all’eroe
greco, forse anche a causa del timbro di cui è dotata.
A Meliso, semplice pastore, vengono assegnate due arie, secondo me, tra le
più belle dell’opera. Egli rappresenta il popolo e le sue reazioni allo
svolgersi della vicenda: si mostra, infatti, ora grato a Perseo, ora
preoccupato per la brutta piega che stanno prendendo le cose, giungendo al
punto di pregare gli dei affinché tutto si risolva per il meglio. Delle
sue due arie, la prima, “In (su) queste sponde” è accompagnata dal coro,
accostamento che sottolinea ancor di più il legame del personaggio al
popolo. E’ un’aria allegra, molto briosa, che acquista spessore grazie al
coro, che è allo stesso tempo forte e grazioso. La Stagione Armonica,
infatti, riesce nel compito di non sopraffare il solista di turno,
accompagnandolo, invece, conferendo ricchezza all’esecuzione stessa. Anna
Bonitatibus riesce a trasmettere tutto il “gaudio”, per dirla con Meliso,
che la popolazione prova dopo essere stata liberata dall’orrenda minaccia
del mostro marino, inviato da Nettuno. La sua esecuzione è molto buona ed
arricchita di cesellature belcantistiche, che permettono al componimento
di risultare molto gradevole e di dare inizio allo spettacolo con energia.
Preoccupato per le “vicende dei mortali”, il pastore intona il motivo
“Dalle superne sfere lieto, Imeneo, discendi”. Il timbro della Bonitatibus
conferisce all’aria quel tanto di tragicità che basta per collocarla tra
quelle eseguite nella maniera migliore: l’invocazione di Meliso, infatti,
riassume in sé sia la preoccupazione del popolo, sia la sua volontà di far
fronte con le proprie forze al fato avverso.
In conclusione, la Bonitatibus può tranquillamente essere considerata la
migliore cantante del lotto seconda alla Kermes solo per tecnica e non
certo per interpretazione.
Una nota a parte merita Andrea Marcon, che conduce in maniera lodevole e
sferzante l’orchestra, conferendo all’opera brio e compattezza. Sin dalle
sinfonie d’apertura, tra l’altro molto gradevoli, si capisce che la
conduzione è un punto fermo di questa edizione. Nell’aria “Sovvente il
sole”, non accompagna semplicemente Cencic, ma costruisce l’atmosfera
giusta per una grande interpretazione: gli strumenti sembrano imitare il
suono di uno specchio d’acqua liscio, permettendo anche di “vedere” i
riflessi delle onde tranquille.
A conti fatti, dunque, questa edizione è soddisfacente e caldamente
consigliata.
E che importa, infine, se l’opera non è attribuibile al solo Vivaldi?
A cura di
Gentario
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