Gasparo

Pacchierotti  

 

 

( 1740 - 1821 )

 

 

Pacchierotti Gasparo

 

 

Si è spesso ritenuto che i cantanti della fine del XVIII° secolo non potessero giungere né alla fama né alla popolarità ed abilità tecnica di un Farinelli, di un Caffarelli o dei loro contemporanei. Sicuramente nessuno di loro giunse ad essere quasi un primo ministro di Spagna, come Farinelli, eppure le ovazioni e le approvazioni con le quali Pacchierotti veniva accolto dovunque sembra non discostarsi molto dagli encomi ricevuti dal suo predecessore. Relativamente al livello artistico dell’età mozartiana, Burney arriva ad affermare:
“Un’interpretazione sul genere di quella di Farinelli, che generò enorme stupore nel 1734, verrebbe giudicata a malapena passabile nel 1788 per un cantante d’opera di terzo piano”; Burney sta esagerando, ma dà un’idea del livello esecutivo richiesto da un pubblico familiare con quel brillante trio di virtuosi che erano Rubinelli, Marchesi e Pacchierotti.
Pacchierotti ebbe i natali Fabriano - zona ricca di belle voci - nel 1740; la sua famiglia deve essere stata di nobiltà decaduta, che comunque faceva risalire le proprie origini al pittore Jacopo del Pacchia, detto Pacchierotto, nativo di Siena, che si era trasferito nelle Marche e aveva imitato con eccellenti risultati lo stile del Perugino e di Raffaello.
Pacchierotti studiò a Venezia col maestro e compositore Bertoni, col quale poi condivise una amicizia per tutta la vita, e pare che facesse parte del coro di San Marco negli anni intorno al 1757.
Il suo debutto teatrale fu solo all’età di ventisei anni (nell’ACHILLE IN SCIRO di Gasmann al teatro San Giovanni Grisostomo), e si ritiene possa esser questo il motivo per cui la sua voce si mantenne bella così a lungo.
Nel 1769 sostituì Guarducci nella carica di capo cantore nella chiesa di San Benedetto.
Agli inizi Pacchierotti dovette superare molte difficoltà, tra le quali quella che derivava dal suo aspetto fisico: era, infatti, esageratamente alto e magro, brutto di viso e goffo nei movimenti. A questo handicap si aggiunga poi la gelosia da parte degli altri cantanti, che pare si siano accorti fin dall’inizio del suo inusuale talento: per fare un esempio nel 1769 la primadonna Anna de Amicis fece una scenata e minacciò di andarsene se c’era lui, quando seppe che era stato scritturato per Napoli; Anna riuscì a far sì che il contratto venisse stipulato con Guadagni, costringendo Pacchierotti ad accontentarsi di Palermo, dove veniva idolatrato e dove rimase fino al 1771.
Mentre si trovava in Sicilia, Pacchierotti venne per la prima volta in contatto con la famosa ed altrettanto nota per l’eccentricità e i capricci, Caterina Gabrielli, una delle maggiori cantanti del XVIII° secolo.
“La primadonna,” afferma Patrick Brydone, “è la Gabrielli, indubbiamente la più grande cantante del mondo, e coloro che cantano insieme a lei devono essere di un livello eccezionale perché qualcuno si accorga di loro. Questo infatti è stato il destino di tutti gli interpreti, ad eccezione di Pacchierotti, e anch’egli si demoralizzò quando la sentì cantare. Si trattava per caso di un’aria di bravura perfettamente adatta alla sua voce, e nella quale ella si produsse in maniera così sorprendente che, prima che fosse giunta alla metà, il povero Pacchierotti pianse finendo per ritirasi dietro le quinte, rimproverandosi di aver osato comparire sullo stesso palcoscenico con una cantante così eccezionale, proprio per il fatto che non solo le sue modeste qualità sarebbero passate in secondo piano, ma anche egli stesso avrebbe finito per essere accusato di presunzione, cosa assolutamente estranea al suo temperamento. Fu con una certa difficoltà che si riuscì a convincerlo a tornare in scena; ma da un applauso ben meritato, sia per il suo talento che per la sua modestia, egli riprese coraggio, e si dice che non solo il pubblico, ma addirittura la Gabrielli venissero commossi dalla sua interpretazione di un’aria patetica.”
Per tutta la vita, Pacchierotti era fiducioso verso se stesso, tanto che il più banale contrattempo lo scoraggiava in modo incredibile.
Nonostante tutti i suoi capricci, però, la Gabrielli aveva buon cuore ed era incapace di bassezze; purtroppo non avveniva lo stesso con alcuni dei suoi sostenitori. Quando la Gabrielli e Pacchierotti si esibirono a Napoli nel 1772, due partiti sostenitori dell’uno e dell’altra diedero inizio a violente manifestazioni di ostilità. Sembra che, già fin d’allora, Pacchierotti avesse superato in tecnica la negligente Gabrielli, cosa che gli ammiratori di lei (molti spasimanti) non perdonavano volentieri.
Un coevo scrive:
“Vediamo Pacchierotti riscuotere al teatro San Carlo un successo maggiore della famosa Gabrielli e riuscire a crearsi una forte schiera di ammiratori. Una sera, mentre Pacchierotti stava fiorendo una delle sue arie preferite, il gruppo degli oppositori iniziò a fare con la bocca un rumore detto sordino (cioè uno zittio), e il cantante, ritiratosi dietro le quinte, si trovò in preda a tale amarezza e vergogna da esplodere in alti lamenti, e a stento poté essere convinto a terminare lo spettacolo”.
Le tensioni fra i due partiti sfociarono anche in eventi di faziosità che uscivano dagli ambienti teatrali: infatti alla fine uno dei “gabriellisti”, un certo Ruffo, insultò Pacchierotti per la strada, e il cantante, non si accontentò delle scuse, e lo sfidò a duello sul posto. Purtroppo quel tale Ruffo era un ufficiale della guardia del Re e la sua persona era tenuta in altissima considerazione, e di conseguenza Pacchierotti finì in carcere. Certamente non vi fu lasciato languire a lungo, ma l’accaduto avvelenò ulteriormente gli animi che si infiammarono ulteriormente e nessuno a Napoli si poteva permettere il lusso di non schierarsi in questa diatriba, altrimenti sarebbe stato considerato una persona fuori del mondo. Di tutta questa situazione ne finiva per soffrire la Musica e gli spettacoli al San Carlo che si ridussero a qualcosa di simile alla corsa dei carri di Costantinopoli.
Il Grande Caffarelli, ormai anziano, che per qualche motivo era contro Pacchierotti, era inesorabile contro di lui e malignamente lo accusava di essere la causa dell’insuccesso della nuova opera, l'IFIGENIA di Jommelli: certamente una causa però fu che la musica non piaceva ai napoletani essendo stata scritta nello stile che Jommelli aveva interiorizzato mentre si trovava a Stoccarda: questa musica pareva ai napoletani insopportabilmente complessa, tedesca e dotta: era una delle ultime composizione di Jommelli che fu ferito dall’accoglienza che ottenne e si mormora che questo ne abbia affrettato la morte, sebbene riuscì a scrivere ancora un’altra opera, IL TRIONFO DI CLELIA.
Il cantante Kelly ci riporta un altro episodio in cui Pacchierotti, estremamente mite, fu coinvolto, sempre a Napoli ma in un’epoca successiva. Interpretando la parte di Enea nella DIDONE ABBANDONATA di Schuster e soprattutto l’aria “Io ti lascio, e questo addio” Pacchiarotti aveva talmente conquistato una certa marchesa Santa Marca, che nonostante l’aspetto non certo piacevole del cantante, ella se ne innamorò alla follia. Ma tutto questo fece infuriare il suo amante ufficiale, che decise di far assassinare il cantante; e solo la fortuna intervenne per salvare Pacchierotti lasciandolo incolume. Kelly ritiene questa persona vendicativa nel cardinale Ruffo, ma non si capisce se questi fu l’uomo che passò alla storia per la sua crudeltà, al ritorno di re Ferdinando dal suo primo esilio in Sicilia, oppure se il cantante irlandese abbia confuso semplicemente il suo nome con quello del protagonista del duello d’onore di Pacchierotti.
In un’altra circostanza Kelly ci racconta che il cantante “si presume abbia ottenuto grandi somme di denaro da una signora inglese di nobili natali, che si dice si fosse perdutamente innamorata di lui”.
Si può dedurre che la sua voce doveva possedere una qualità erotica bastante per la compensazione della sua mancanza di fascino fisica. Egli non riuscì tuttavia a conquistare l’avventuriera irlandese Sara Goudar della quale voleva diventare l’amante; ella infatti lo respinse con queste parole: “Je ne sais si c’est parce que je suis femme, mais je n’aime point les eunuques".
Nel frattempo Pacchierotti si era esibito in quasi tutte le principali città italiane, pare con brillante successo; nel 1778 fece il suo primo viaggio in Inghilterra dove varcò le scene in un “pasticcio” il DEMOOFONTE. Riscosse enorme entusiasmo, ma Roncaglia era già stato scritturato per la stagione 1779/1780, prima che si conoscessero le doti di Pacchiarotti e così solo verso la fine del 1780 quest’ultimo poté ritornare in Inghilterra, rimanendovi sino al 1784. Poi rientrò in Italia, dopo di che fece un’ultima apparizione a Londra nel 1790.
Burney giudicò Pacchierotti senz’altro il più grande cantante che avesse mai udito e dedicò molto spazio alle sue lodi. L’elogio ad un certo punto dice:
“Le note basse della sua voce erano così ricche di flessibilità che in privato, fra particolari amici e ammiratori, l’ho spesso udito cantare le arie per tenore di Ansani e di David nella loro tonalità originale, in modo perfetto e ammirevole, scendendo talvolta fino al si b del secondo rigo nel basso”.
La figlia di Burney, Fanny, la futura Madame d’Arblay, ammirò e condivise una amicizia con Pacchierotti; pare in realtà che egli avesse pochissimi nemici e detrattori.
Anche il famoso Beckford, uomo assai eccentrico, gli fu affezionatissimo, e in parecchie occasioni lo volle con sé a Fonthill insieme a Tenducci e a Rauzzini, e i tre musici cantarono in parecchie composizioni e fra l’altro in un’operina composta da Beckford stesso.
Fra le opere in cui Pacchierotti fu ammirato a Londra, a parte il DEMOOFONTE già menzionato, vi furono il RINALDO e l'IDALIDE O LA VERGINE DEL SOLE di Sacchini e il QUINTO FABIO di Bertoni, mentre Burney annota le seguenti arie come le quattro sue preferite: “Misero pargoletto” di Monza e “Non temer” di Bertoni ed entrambe inserite nel DEMOOFONTE; “Dolce speme” e “Ti seguirò fedele” dall’OLIMPIADE di Paisiello.
Si esibì frequentemente con la famosa primadonna tedesca Gertrude Mara, e lo stile di canto di quest’ultima, brillante e flessibile, ma alquanto privo di anima, contribuì a rimarcare le sue doti espressive, facendo sorgere una ammirazione unanime nei suoi confronti
Il suo compatriota Nicolò Tommaseo però scrive:
“Gasparo Pacchierotti fu un cantante di bel talento e un attore che, grazie a un lungo studio, riuscì a correggere i difetti della natura e a tramutarli in altrettante virtù. Non va però ascritto a sua lode il fatto che a Londra abbia mosso gli inglesi alle lacrime, poiché i docili isolani, prima di portare agli occhi i bianchi fazzoletti, aspettavano un cenno dal duca d’Orléans che a quel tempo non pensava ad altro che alla Marsigliese e a quell’orgogliosa uguaglianza che minacciava la sua e molte altre teste illustri”.
Questo racconto poteva riferirsi solo all’ultima visita di Pacchierotti, ma in ogni caso è oscuro il significato di tale affermazione.
Al suo ritorno in Italia, nel 1784, Pacchierotti continuò a sollevare consensi in varie città. A Venezia nel 1785 prese parte alla cerimonia funebre dedicata allo scomparso compositore Baldassarre Galuppi e, come assicurò egli stesso a Burney, “cantò con tanta devozione da ottenergli la pace dell’anima”.
Fu circa in questo periodo che a Roma ebbe luogo un altro famoso episodio della sua vita. Stava interpretando la parte di Arbace nell’ARTASERSE di Metastasio, musicato da Bertoni, e in una scena doveva pronunciare le parole “Eppur sono innocente”, che dovevano venir seguite da un ritornello strumentale. Le pronunciò, ma, invece stupito si rese conto che l’orchestra rimaneva silenziosa: allora si volse al direttore, domandandone la motivazione.
“Siamo tutti in lacrime” fu la risposta e per alcuni minuti gli esecutori non poterono continuare a suonare gli strumenti per la grande emozione.
A Venezia per poco non fu causa di una sommossa nel momento in cui si fece vedere nella parte principale del DISERTORE FRANCESE di Bianchi; l’uniforme francese che indossava fu malvista e solo l’intercessione della duchessa di Courland, anch’essa a Venezia, poté riconciliargli il favore del pubblico, rendendo possibile il successo dell’opera.
Ad eccezione di quando fu costretto nel 1796 a cantare per Napoleone, l’ultima apparizione in pubblico di Pacchierotti fu nel 1792 per l’Inaugurazione del teatro La Fenice di Venezia nei GIOCHI D’AGRIGENTO di Paisiello. A quel tempo aveva già superato la cinquantina e l’età inficiava le sue performances; la Marchesa Solari disse:
“Pacchierotti, nonostante tutti i suoi difetti era incantevole quando cantava in tono, poiché egli toccava sempre il cuore; Marchesi, invece, nonostante un’abilità dieci volte superiore e con tutte le sue doti, spesso disgustava il pubblico a causa della sua mancanza di naturalezza, cui Pacchierotti continuò invece a supplire grazie a un’arte così squisita quale nessun altro cantante, sia uomo che donna, è stato fin qui capace di uguagliare. La sua abitudine di calare cantando non derivava da mancanza di orecchio o di cultura musicale, ma da un’eccessiva sensibilità, per cui i suoi poteri metafisici spesso avevano la meglio su quelli fisici”.
Lord Edgcumbe espresse un lungo elogio di Pacchierotti: “La voce di Pacchierotti era quella di un soprano di ampia estensione, piena e dolce al massimi livelli; aveva grandi capacità esecutive, ma troppo buon gusto e buon senso per abusarne quando non era il caso, e si limitava ad un’aria d’agilità per ogni opera, consapevole che le delizie principali del canto e la sua suprema eccellenza consistevano nel raggiungere un potere espressivo caldo e raffinato. Era inoltre così musicista che nulla gli riusciva male; per lui tutti gli stili erano ugualmente facili, e sapeva cantare a prima vista tutte le arie dei personaggi più diversi, non solo con quella facilità e precisione che una perfetta conoscenza della musica deve dare, ma intuendo subito le intenzioni del compositore e conferendo al suo canto l’accento e l’espressione che quegli aveva immaginato. Tale era il suo talento negli abbellimenti e nelle cadenze, che la loro varietà sembrava inesauribile. Non cantava mai un’aria due volte esattamente nello stesso modo, e neppure introduceva un ornamento che non fosse giusto e appropriato alla composizione. Il suo trillo (allora considerato un requisito indispensabile senza il quale nessuno poteva essere ritenuto un perfetto cantante) era senz’altro il migliore che si potesse sentire nei vari modi in cui tale abbellimento poteva essere eseguito: sia che venisse fatto nella zona superiore come in quella inferiore, di tono o di semitono, rapido o lento, era sempre aperto, uguale e chiaro, dava il massimo splendore alle cadenze e spesso faceva da introduzione ai suoi passaggi con gli effetti più felici. Come attore, nonostante i numerosi difetti della persona, era efficace ed espressivo, poiché sentiva con calore, aveva grande discernimento ed era un fanatico della sua professione. Il suo recitativo era inimitabile e raffinato, cosicché coloro che non comprendevano la sua lingua, non potevano fare a meno di capire, dal suo comportamento, dalla voce e dall’azione, tutti i sentimenti che voleva esprimere. Come cantante da concerto, soprattutto in ambienti privati, eccelse anche di più che sul palcoscenico; cantava con maggiore animazione in un ristretto cerchio di amici ed era più soddisfatto dei loro applausi che di quelli ricevuti in un concerto pubblico o in un teatro affollato. Ero abituato ad ascoltarlo molto frequentemente, ed essendo stato in grande intimità con lui per parecchi anni, posso parlare minutamente delle sue interpretazioni. In casi simili si abbandonava alla fantasia e sembrava quasi ispirato; spesso ho visto i suoi ascoltatori, anche quelli meno musicali, commossi fino alle lacrime quando egli cantava. Conoscitore di un’ampia collezione di musiche, poteva esibirsi in un’infinita varietà di arie di ogni maestro di fama. L’ho sentito eseguire più di una volta una cantata di Haydn, ARIANNA A NASSO, composta per una sola voce, con un solo pianoforte per accompagnamento che veniva suonato da Haydn stesso; è inutile dire che l’esecuzione era perfetta. A questi ragguagli dei suoi meriti e delle sue qualità peculiari di cantante, devo aggiungere che era un uomo degno, buono, modesto e scrupoloso fino all’eccesso; infatti a volte faceva e rifaceva prove all’infinito, e non era soddisfatto di sé anche quando aveva dato il massimo godimento ai suoi ascoltatori. Non era per nulla presuntuoso ed era riconoscente e affezionato ai suoi numerosi amici e protettori”.
Pacchierotti si ritirò poi a Padova trascorrendo una vita tranquilla senza preoccupazioni, ad eccezione di quella volta in cui una sua lettera destinata ad Angelica Catalani, che si riferiva a “le splendide miserie della vittoria”, fu intercettata dalla polizia, e il cantante dovette così trascorrere un mese in prigione. Pacchierotti si riferiva col termine “vittoria” alla riconquista dell’Italia da parte degli austriaci nel 1814, nella quale per poco non perse a vita Verdi, che allora aveva appena un anno.
Stendhal che ebbe modo di conoscerlo nel 1815 riscontrò che aveva tutto “il fuoco della gioventù” ed “era ancora sublime quando canta un recitativo... Imparai più musica in sei conversazioni con questo grande artista che da qualsiasi libro; era l’anima che parlava all’anima”
Pacchierotti pubblicò anche un metodo di canto su cui Calegari fondò i suoi “Modi generali del canto” (1836) e morì nel 1821.


 

 

Aneddoti

 

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A cura di Arsace

 

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Ultimo aggiornamento: 17-10-21