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Si è spesso ritenuto che i cantanti della fine del XVIII°
secolo non potessero giungere né alla fama né alla popolarità ed abilità
tecnica di un Farinelli, di un
Caffarelli o dei loro contemporanei.
Sicuramente nessuno di loro giunse ad essere quasi un primo ministro di
Spagna, come Farinelli, eppure le ovazioni e le approvazioni con le quali Pacchierotti
veniva accolto dovunque sembra non discostarsi molto dagli encomi ricevuti
dal suo predecessore. Relativamente al livello artistico dell’età
mozartiana, Burney arriva ad affermare:
“Un’interpretazione sul genere di quella di Farinelli, che generò enorme
stupore nel 1734, verrebbe giudicata a malapena passabile nel 1788 per un
cantante d’opera di terzo piano”; Burney sta esagerando, ma dà un’idea del
livello esecutivo richiesto da un pubblico familiare con quel brillante
trio di virtuosi che erano
Rubinelli,
Marchesi e Pacchierotti.
Pacchierotti ebbe i natali Fabriano - zona ricca di belle voci - nel 1740;
la sua famiglia deve essere stata di nobiltà decaduta, che comunque faceva
risalire le proprie origini al pittore Jacopo del Pacchia, detto
Pacchierotto, nativo di Siena, che si era trasferito nelle Marche e aveva
imitato con eccellenti risultati lo stile del Perugino e di Raffaello.
Pacchierotti studiò a Venezia col maestro e compositore Bertoni, col quale
poi condivise una amicizia per tutta la vita, e pare che facesse parte del
coro di San Marco negli anni intorno al 1757.
Il suo debutto teatrale fu solo all’età di ventisei anni (nell’ACHILLE IN
SCIRO di Gasmann al teatro San Giovanni Grisostomo), e si ritiene possa
esser questo il motivo per cui la sua voce si mantenne bella così a lungo.
Nel 1769 sostituì Guarducci nella carica di capo cantore nella chiesa di
San Benedetto.
Agli inizi Pacchierotti dovette superare molte difficoltà, tra le quali
quella che derivava dal suo aspetto fisico: era, infatti, esageratamente
alto e magro, brutto di viso e goffo nei movimenti. A questo handicap si
aggiunga poi la gelosia da parte degli altri cantanti, che pare si siano
accorti fin dall’inizio del suo inusuale talento: per fare un esempio nel
1769 la primadonna Anna de Amicis fece una scenata e minacciò di andarsene
se c’era lui, quando seppe che era stato scritturato per Napoli; Anna
riuscì a far sì che il contratto venisse stipulato con Guadagni,
costringendo Pacchierotti ad accontentarsi di Palermo, dove veniva
idolatrato e dove rimase fino al 1771.
Mentre si trovava in Sicilia, Pacchierotti venne per la prima volta in
contatto con la famosa ed altrettanto nota per l’eccentricità e i
capricci, Caterina Gabrielli, una delle maggiori cantanti del XVIII°
secolo.
“La primadonna,” afferma Patrick Brydone, “è la Gabrielli, indubbiamente
la più grande cantante del mondo, e coloro che cantano insieme a lei
devono essere di un livello eccezionale perché qualcuno si accorga di
loro. Questo infatti è stato il destino di tutti gli interpreti, ad
eccezione di Pacchierotti, e anch’egli si demoralizzò quando la sentì
cantare. Si trattava per caso di un’aria di bravura perfettamente adatta
alla sua voce, e nella quale ella si produsse in maniera così sorprendente
che, prima che fosse giunta alla metà, il povero Pacchierotti pianse
finendo per ritirasi dietro le quinte, rimproverandosi di aver osato
comparire sullo stesso palcoscenico con una cantante così eccezionale,
proprio per il fatto che non solo le sue modeste qualità sarebbero passate
in secondo piano, ma anche egli stesso avrebbe finito per essere accusato
di presunzione, cosa assolutamente estranea al suo temperamento. Fu con
una certa difficoltà che si riuscì a convincerlo a tornare in scena; ma da
un applauso ben meritato, sia per il suo talento che per la sua modestia,
egli riprese coraggio, e si dice che non solo il pubblico, ma addirittura
la Gabrielli venissero commossi dalla sua interpretazione di un’aria
patetica.”
Per tutta la vita, Pacchierotti era fiducioso verso se stesso, tanto che
il più banale contrattempo lo scoraggiava in modo incredibile.
Nonostante tutti i suoi capricci, però, la Gabrielli aveva buon cuore ed
era incapace di bassezze; purtroppo non avveniva lo stesso con alcuni dei
suoi sostenitori. Quando la Gabrielli e Pacchierotti si esibirono a Napoli
nel 1772, due partiti sostenitori dell’uno e dell’altra diedero inizio a
violente manifestazioni di ostilità. Sembra che, già fin d’allora,
Pacchierotti avesse superato in tecnica la negligente Gabrielli, cosa che
gli ammiratori di lei (molti spasimanti) non perdonavano volentieri.
Un coevo scrive:
“Vediamo Pacchierotti riscuotere al teatro San Carlo un successo maggiore
della famosa Gabrielli e riuscire a crearsi una forte schiera di
ammiratori. Una sera, mentre Pacchierotti stava fiorendo una delle sue
arie preferite, il gruppo degli oppositori iniziò a fare con la bocca un
rumore detto sordino (cioè uno zittio), e il cantante, ritiratosi dietro
le quinte, si trovò in preda a tale amarezza e vergogna da esplodere in
alti lamenti, e a stento poté essere convinto a terminare lo spettacolo”.
Le tensioni fra i due partiti sfociarono anche in eventi di faziosità che
uscivano dagli ambienti teatrali: infatti alla fine uno dei “gabriellisti”,
un certo Ruffo, insultò Pacchierotti per la strada, e il cantante, non si
accontentò delle scuse, e lo sfidò a duello sul posto. Purtroppo quel tale
Ruffo era un ufficiale della guardia del Re e la sua persona era tenuta in
altissima considerazione, e di conseguenza Pacchierotti finì in carcere.
Certamente non vi fu lasciato languire a lungo, ma l’accaduto avvelenò
ulteriormente gli animi che si infiammarono ulteriormente e nessuno a
Napoli si poteva permettere il lusso di non schierarsi in questa diatriba,
altrimenti sarebbe stato considerato una persona fuori del mondo. Di tutta
questa situazione ne finiva per soffrire la Musica e gli spettacoli al San
Carlo che si ridussero a qualcosa di simile alla corsa dei carri di
Costantinopoli.
Il Grande Caffarelli, ormai anziano, che per qualche motivo era contro
Pacchierotti, era inesorabile contro di lui e malignamente lo accusava di
essere la causa dell’insuccesso della nuova opera, l'IFIGENIA di Jommelli:
certamente una causa però fu che la musica non piaceva ai napoletani
essendo stata scritta nello stile che Jommelli aveva interiorizzato mentre
si trovava a Stoccarda: questa musica pareva ai napoletani
insopportabilmente complessa, tedesca e dotta: era una delle ultime
composizione di Jommelli che fu ferito dall’accoglienza che ottenne e si
mormora che questo ne abbia affrettato la morte, sebbene riuscì a scrivere
ancora un’altra opera, IL TRIONFO DI CLELIA.
Il cantante Kelly ci riporta un altro episodio in cui Pacchierotti,
estremamente mite, fu coinvolto, sempre a Napoli ma in un’epoca
successiva. Interpretando la parte di Enea nella DIDONE ABBANDONATA di
Schuster e soprattutto l’aria “Io ti lascio, e questo addio” Pacchiarotti
aveva talmente conquistato una certa marchesa Santa Marca, che nonostante
l’aspetto non certo piacevole del cantante, ella se ne innamorò alla
follia. Ma tutto questo fece infuriare il suo amante ufficiale, che decise
di far assassinare il cantante; e solo la fortuna intervenne per salvare
Pacchierotti lasciandolo incolume. Kelly ritiene questa persona
vendicativa nel cardinale Ruffo, ma non si capisce se questi fu l’uomo che
passò alla storia per la sua crudeltà, al ritorno di re Ferdinando dal suo
primo esilio in Sicilia, oppure se il cantante irlandese abbia confuso
semplicemente il suo nome con quello del protagonista del duello d’onore
di Pacchierotti.
In un’altra circostanza Kelly ci racconta che il cantante “si presume
abbia ottenuto grandi somme di denaro da una
signora inglese di nobili
natali, che si dice si fosse perdutamente innamorata di lui”.
Si può dedurre che la sua voce doveva possedere una qualità erotica
bastante per la compensazione della sua mancanza di fascino fisica. Egli
non riuscì tuttavia a conquistare l’avventuriera irlandese Sara Goudar
della quale voleva diventare l’amante; ella infatti lo respinse con queste
parole: “Je ne sais si c’est parce que je suis femme, mais je n’aime point
les eunuques".
Nel frattempo Pacchierotti si era esibito in quasi tutte le principali
città italiane, pare con brillante successo; nel 1778 fece il suo primo
viaggio in Inghilterra dove varcò le scene in un “pasticcio” il DEMOOFONTE.
Riscosse enorme entusiasmo, ma
Roncaglia era già stato scritturato per la
stagione 1779/1780, prima che si conoscessero le doti di Pacchiarotti e
così solo verso la fine del 1780 quest’ultimo poté ritornare in
Inghilterra, rimanendovi sino al 1784. Poi rientrò in Italia, dopo di che
fece un’ultima apparizione a Londra nel 1790.
Burney giudicò Pacchierotti senz’altro il più grande cantante che avesse
mai udito e dedicò molto spazio alle sue lodi. L’elogio ad un certo punto
dice:
“Le note basse della sua voce erano così ricche di flessibilità che in
privato, fra particolari amici e ammiratori, l’ho spesso udito cantare le
arie per tenore di Ansani e di David nella loro tonalità originale, in
modo perfetto e ammirevole, scendendo talvolta fino al si b del secondo
rigo nel basso”.
La figlia di Burney, Fanny, la futura Madame d’Arblay, ammirò e condivise
una amicizia con Pacchierotti; pare in realtà che egli avesse pochissimi
nemici e detrattori.
Anche il famoso Beckford, uomo assai eccentrico, gli fu affezionatissimo,
e in parecchie occasioni lo volle con sé a Fonthill insieme a
Tenducci e a
Rauzzini, e i tre musici cantarono in parecchie composizioni e fra l’altro
in un’operina composta da Beckford stesso.
Fra le opere in cui Pacchierotti fu ammirato a Londra, a parte il
DEMOOFONTE già menzionato, vi furono il RINALDO e l'IDALIDE O LA VERGINE
DEL SOLE di Sacchini e il QUINTO FABIO di Bertoni, mentre Burney annota le
seguenti arie come le quattro sue preferite: “Misero pargoletto” di Monza
e “Non temer” di Bertoni ed entrambe inserite nel DEMOOFONTE; “Dolce
speme” e “Ti seguirò fedele” dall’OLIMPIADE di Paisiello.
Si esibì frequentemente con la famosa primadonna tedesca Gertrude Mara, e
lo stile di canto di quest’ultima, brillante e flessibile, ma alquanto
privo di anima, contribuì a rimarcare le sue doti espressive, facendo
sorgere una ammirazione unanime nei suoi confronti
Il suo compatriota Nicolò Tommaseo però scrive:
“Gasparo Pacchierotti fu un cantante di bel talento e un attore che,
grazie a un lungo studio, riuscì a correggere i difetti della natura e a
tramutarli in altrettante virtù. Non va però ascritto a sua lode il fatto
che a Londra abbia mosso gli inglesi alle lacrime, poiché i docili
isolani, prima di portare agli occhi i bianchi fazzoletti, aspettavano un
cenno dal duca d’Orléans che a quel tempo non pensava ad altro che alla
Marsigliese e a quell’orgogliosa uguaglianza che minacciava la sua e molte
altre teste illustri”.
Questo racconto poteva riferirsi solo all’ultima visita di Pacchierotti,
ma in ogni caso è oscuro il significato di tale affermazione.
Al suo ritorno in Italia, nel 1784, Pacchierotti continuò a sollevare
consensi in varie città. A Venezia nel 1785 prese parte alla cerimonia
funebre dedicata allo scomparso compositore
Baldassarre Galuppi e, come
assicurò egli stesso a Burney, “cantò con tanta devozione da ottenergli la
pace dell’anima”.
Fu circa in questo periodo che a Roma ebbe luogo un altro famoso episodio
della sua vita. Stava interpretando la parte di Arbace nell’ARTASERSE di
Metastasio, musicato da Bertoni, e in una scena doveva pronunciare le
parole “Eppur sono innocente”, che dovevano venir seguite da un ritornello
strumentale. Le pronunciò, ma, invece stupito si rese conto che
l’orchestra rimaneva silenziosa: allora si volse al direttore,
domandandone la motivazione.
“Siamo tutti in lacrime” fu la risposta e per alcuni minuti gli esecutori
non poterono continuare a suonare gli strumenti per la grande emozione.
A Venezia per poco non fu causa di una sommossa nel momento in cui si fece
vedere nella parte principale del DISERTORE FRANCESE di Bianchi;
l’uniforme francese che indossava fu malvista e solo l’intercessione della
duchessa di Courland, anch’essa a Venezia, poté riconciliargli il favore
del pubblico, rendendo possibile il successo dell’opera.
Ad eccezione di quando fu costretto nel 1796 a cantare per Napoleone,
l’ultima apparizione in pubblico di Pacchierotti fu nel 1792 per
l’Inaugurazione del teatro La Fenice di Venezia nei GIOCHI D’AGRIGENTO di
Paisiello. A quel tempo aveva già superato la cinquantina e l’età
inficiava le sue performances; la Marchesa Solari disse:
“Pacchierotti, nonostante tutti i suoi difetti era incantevole quando
cantava in tono, poiché egli toccava sempre il cuore; Marchesi, invece,
nonostante un’abilità dieci volte superiore e con tutte le sue doti,
spesso disgustava il pubblico a causa della sua mancanza di naturalezza,
cui Pacchierotti continuò invece a supplire grazie a un’arte così squisita
quale nessun altro cantante, sia uomo che donna, è stato fin qui capace di
uguagliare. La sua abitudine di calare cantando non derivava da mancanza
di orecchio o di cultura musicale, ma da un’eccessiva sensibilità, per cui
i suoi poteri metafisici spesso avevano la meglio su quelli fisici”.
Lord Edgcumbe espresse un lungo elogio di Pacchierotti: “La voce di Pacchierotti era quella di un soprano di ampia
estensione, piena e dolce al massimi livelli; aveva grandi capacità
esecutive, ma troppo buon gusto e buon senso per abusarne quando non era
il caso, e si limitava ad un’aria d’agilità per ogni opera, consapevole
che le delizie principali del canto e la sua suprema eccellenza
consistevano nel raggiungere un potere espressivo caldo e raffinato. Era
inoltre così musicista che nulla gli riusciva male; per lui tutti gli
stili erano ugualmente facili, e sapeva cantare a prima vista tutte le
arie dei personaggi più diversi, non solo con quella facilità e precisione
che una perfetta conoscenza della musica deve dare, ma intuendo subito le
intenzioni del compositore e conferendo al suo canto l’accento e
l’espressione che quegli aveva immaginato. Tale era il suo talento negli
abbellimenti e nelle cadenze, che la loro varietà sembrava inesauribile.
Non cantava mai un’aria due volte esattamente nello stesso modo, e neppure
introduceva un ornamento che non fosse giusto e appropriato alla
composizione. Il suo trillo (allora considerato un requisito
indispensabile senza il quale nessuno poteva essere ritenuto un perfetto
cantante) era senz’altro il migliore che si potesse sentire nei vari modi
in cui tale abbellimento poteva essere eseguito: sia che venisse fatto
nella zona superiore come in quella inferiore, di tono o di semitono,
rapido o lento, era sempre aperto, uguale e chiaro, dava il massimo
splendore alle cadenze e spesso faceva da introduzione ai suoi passaggi
con gli effetti più felici. Come attore, nonostante i numerosi difetti
della persona, era efficace ed espressivo, poiché sentiva con calore,
aveva grande discernimento ed era un fanatico della sua professione. Il
suo recitativo era inimitabile e raffinato, cosicché coloro che non
comprendevano la sua lingua, non potevano fare a meno di capire, dal suo
comportamento, dalla voce e dall’azione, tutti i sentimenti che voleva
esprimere. Come cantante da concerto, soprattutto in ambienti privati,
eccelse anche di più che sul palcoscenico; cantava con maggiore animazione
in un ristretto cerchio di amici ed era più soddisfatto dei loro applausi
che di quelli ricevuti in un concerto pubblico o in un teatro affollato.
Ero abituato ad ascoltarlo molto frequentemente, ed essendo stato in
grande intimità con lui per parecchi anni, posso parlare minutamente delle
sue interpretazioni. In casi simili si abbandonava alla fantasia e
sembrava quasi ispirato; spesso ho visto i suoi ascoltatori, anche quelli
meno musicali, commossi fino alle lacrime quando egli cantava. Conoscitore
di un’ampia collezione di musiche, poteva esibirsi in un’infinita varietà
di arie di ogni maestro di fama. L’ho sentito eseguire più di una volta
una cantata di Haydn, ARIANNA A NASSO, composta per una sola voce, con un
solo pianoforte per accompagnamento che veniva suonato da Haydn stesso; è
inutile dire che l’esecuzione era perfetta. A questi ragguagli dei suoi
meriti e delle sue qualità peculiari di cantante, devo aggiungere che era
un uomo degno, buono, modesto e scrupoloso fino all’eccesso; infatti a
volte faceva e rifaceva prove all’infinito, e non era soddisfatto di sé
anche quando aveva dato il massimo godimento ai suoi ascoltatori. Non era
per nulla presuntuoso ed era riconoscente e affezionato ai suoi numerosi
amici e protettori”.
Pacchierotti si ritirò poi a Padova trascorrendo una vita tranquilla senza
preoccupazioni, ad eccezione di quella volta in cui una sua lettera
destinata ad Angelica Catalani, che si riferiva a “le splendide miserie
della vittoria”, fu intercettata dalla polizia, e il cantante dovette così
trascorrere un mese in prigione. Pacchierotti si riferiva col termine
“vittoria” alla riconquista dell’Italia da parte degli austriaci nel 1814,
nella quale per poco non perse a vita Verdi, che allora aveva appena un
anno.
Stendhal che ebbe modo di conoscerlo nel 1815 riscontrò che aveva tutto
“il fuoco della gioventù” ed “era ancora sublime quando canta un
recitativo... Imparai più musica in sei conversazioni con questo grande
artista che da qualsiasi libro; era l’anima che parlava all’anima”
Pacchierotti pubblicò anche un metodo di canto su cui Calegari fondò i
suoi “Modi generali del canto” (1836) e morì nel 1821.
Aneddoti
A cura di Arsace
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